La resa di Roberto Saviano e la resa dell'Italia

In un'intervista rilasciata al quotidiano spagnolo El Pais, Roberto Saviano ha dichiarato: «Per cercare la verità, ho distrutto la mia vita e quella delle persone che mi circondano. Non ne valeva la pena». Lo sfogo dello scrittore, vittima di una sorta di condanna a morte da parte della Camorra per la sua inchiesta nel libro-verità Gomorra, colpisce fino a un certo punto.

Appare come una reazione naturale da parte di un ragazzo che a 25 anni ha scelto di sfidare a viso aperto una delle organizzazioni criminali più potenti del mondo, senza immaginare fino a che punto si sarebbero spinte le conseguenze. Saviano, che da un decennio vive praticamente in esilio, racconta la sua non-vita fatta di continui controlli, autorizzazioni, spostamenti segreti; ammette di assumere psicofarmaci e di temere “di finire in un ospedale psichiatrico”. Si potrebbe ribattere che in tutto questo, in fondo, non c'è niente di anomalo. Ogunno è responsabile delle proprie azioni e dei rischi che ne derivano. E invece l'anomalia esiste eccome. Non tanto nel tortuoso calvario del giornalista che antepone il coraggio della denuncia alla propria libertà, quanto nel paradosso che si cela dietro tutto questo. La latitanza forzata di Saviano, seppur legale, assomiglia parecchio a quella - illegale - dei criminali che scappano dall'Italia per sfuggire all'arresto. Il triste parallelismo tra la vita sotto-scorta dello scrittore e la vita sotto-bunker dei boss è un pugno nello stomaco da parte di un paese che dovrebbe inseguire gli uni e proteggere gli altri, e invece troppo spesso sembra fare confusione, addirittura confondendo i ruoli. Se è vero che l'uomo qualunque, per vigliaccheria o timore, potrebbe essere legittimato a dire “fatti suoi, poteva starsene zitto”, l'istituzione non può permetterselo, perché, se lo fa, il messaggio indica una resa incondizionata al male, all'ingiustizia, all'oppressione. Un uomo ha il diritto di potersi arrendere; uno Stato no. Deve garantire ai suoi cittadini una prospettiva di speranza, affinché i combattenti come Saviano possano giocarsi la loro partita ad armi pari, e non soltanto come “cadaveri che camminano”.