Riforma degli Ordini, addio ai giornalisti pubblicisti?

Il rammarico maggiore sarà semmai avere pagato l'iscrizione all'albo per l'anno in corso. Troppo fragile è la categoria dei giornalisti - e soprattutto quella dei pubblicisti, considerati né carne né pesce, una via di mezzo tra professionisti e dilettanti allo sbaraglio - per cercare di imbastire una lotta di classe.

Del resto, se il Governo è veramente intenzionato ad avviare una riforma degli Ordini professionali, è naturale che scelga la via più semplice: iniziare con quelli più deboli. Una tattica in parte logica e in parte vigliacca, ovviamente. Chi si sognerebbe di dare una raddrizzata, ad esempio, all'Ordine notarile? 

L'albo dei pubblicisti fu creato - in teoria - come tentativo di inquadrare una figura, quella del giornalista free lance, che doveva differenziarsi dal professionista vero e proprio. In realtà, nel corso degli anni si è trasformato in un bacino di raccolta inutile e fin troppo aperto, dove la selezione è ridicola e i privilegi pochissimi. Più che ai propri iscritti, l'albo sembra servire soprattutto ad auto-alimentare l'Ordine stesso, soprattutto sul piano economico, visto che gli 80.000 pubblicisti che ci sono in Italia portano nelle sue casse quasi 10 milioni di euro all'anno.

Resta forte però il sospetto che la cancellazione di albi minori come il nostro possa essere utilizzata dal Governo come escamotage per far vedere agli occhi del pubblico che una blanda riforma è stata avviata. Bastone con i deboli, carota con i forti (vedi tassisti e farmacie). Ed è altrettanto forte il sospetto che alla fine non se ne farà niente, che gli Ordini professionali rimarranno tutti quanti, con i loro esami di Stato e le loro selezioni più o meno serie. Anche perché, in un momento simile, con le piccole e grandi economie a rotoli, questo sembra proprio l'ultimo dei problemi.