Tra spruzzi d’acqua e cigolio di ruote

Qui da noi, come altrove, questa ha avuto per protagonisti sul piano tecnologico impianti solo in apparenza semplici e modesti, ma che in realtà hanno rappresentato una pietra miliare nella storia dell’umanità: i mulini. Nati essenzialmente per adempiere a una funzione piuttosto prosaica, ossia per macinare i cereali, dal secolo XVIII hanno offerto un contributo determinante al sorgere dei primi stabilimenti industriali.
I mulini del nostro territorio erano quelli idraulici, azionati da corsi d’acqua. La “materia prima” la fornivano soprattutto il Lambro, l’Adda e l’Addetta, Muzza, Vettabbia, i canali da essi derivati e le centinaia di fontanili che disegnavano sul territorio una ragnatela fittissima, utile non solo in agricoltura, ma anche sul versante proto-industriale. Prima di fare una rapida carrellata dei principali impianti molitori esistenti nel Sud-Est Milano, è opportuno vedere in cosa consistono e quali sono le varianti più diffuse dei mulini: pista o pila, torchio e folla.
Con il nome “mulino” genericamente si intende sia il fabbricato, sia le macchine che al suo interno riducono il grano in farina. Deriva dal latino “molinum”, a sua volta proveniente da mola, disco in pietra per macinare i cereali (mola, macina o palmento). L’edificio sorge sulle rive di un corso d’acqua per catturarne l’energia; tramite un sistema di chiuse si convoglia la corrente verso la ruota idraulica, la quale aziona tutti i restanti meccanismi. Dentro al locale del mulino l’elemento più appariscente, oltre alle ruote dentate e piatte, le cinghie di trasmissione, è costituito da una incastellatura sopra a cui giacciono le due macine, entrambe forate al centro: quella inferiore è fissa, attraversata da un palo in ferro, l’albero motore verticale, il quale a sua volta è innestato nella macina soprastante, mobile. Quando gira l’albero, gira pure la mola superiore. La tramoggia, una specie di imbuto sospeso sopra al pulpito, somministra gradualmente il frumento o il mais, fatto cadere nell’occhio o bocca del palmento rotante. Scivolando nell’interstizio tra le due mole, il grano per sfregamento viene convertito in farina.
Quello che abbiamo descritto qui sopra è il classico mulino idraulico per macinare, presente nelle zone di pianura come la nostra. Oltre che per “polverizzare” frumento, mais e granaglie simili, come s’è detto molti mulini esercitavano però altre funzioni para-industriali. Quando incontriamo il vocabolo pila o pista dobbiamo intendere un impianto nel quale si lavora innanzitutto il riso, più cereali quali orzo e miglio. I loro chicchi sono rivestiti da una scorza tenace che occorre staccare. Anticamente ciò si effettuava per mezzo di pestelli azionati per via meccanica, entro mortai in granito dotati di opportuni fori rotondi. Le bucce, usate per l’alimentazione animale, venivano sminuzzate nella molazza, sorta di vasca rotonda in pietra o lamiera dentro alla quale girava una grossa mola verticale, a volte due, come in un frantoio. Nei torchi, altra variante del mulino, avveniva la spremitura dei semi di lino e ravizzone o colza, da cui si ricavava dell’olio adoperato a scopo alimentare o artigianale-industriale. Il termine e toponimo “folla” (presente per esempio a Mediglia e San Giuliano) indica l’esistenza di macchine per la follatura, speciali magli idraulici che lavoravano scarti di lana o tessuti. Sfilacciandoli e ripestandoli in continuazione dentro l’acqua si otteneva il feltro, assai utilizzato nel passato per le discrete proprietà idro-repellenti (ci si confezionavano cappelli, pastrani e mantelli). Sempre alle suddette “folle” registriamo la presenza di mulini per la carta: le macchine, il procedimento e i materiali usati erano più o meno identici (la carta si ottiene anche dagli stracci); certo che qui il prodotto ottenuto era quanto di più raffinato, prezioso e costoso si potesse avere.
Praticamente ogni maggiore cascina del territorio disponeva di un proprio impianto molitorio. Troppo lungo sarebbe passare in rassegna tutti i mulini che sono arrivati ai giorni nostri; a titolo esemplificativo citiamo quello di Robbiano (del quale ammiriamo la bella ruota idraulica esterna, datata 1871, e dentro un doppio impianto molitorio perfettamente integro); quelli del Molinazzo vicino a Balbiano (al suo interno sono conservati marchingegni di eccezionale importanza: un doppio mulino da grano tuttora funzionante e cinque gigantesche molazze per il riso con macchinari annessi; nel complesso si tratta di un prezioso esempio di archeologia industriale, forse uno dei maggiori di Lombardia). Ricordiamo inoltre il magnifico mulino Ronco a Poasco (con una “pila” intatta), i mulini di Linate e Zoate; il mulino restaurato e di proprietà comunale al centro di Pantigliate; quello di “Mezzo” a Segrate, ancora funzionante; l’altro a Limito di Pioltello, il mulino della paullese Conterico, il Molinazzo di Zelo Buon Persico e così via… Testimonianze romantiche di un passato che continua a esercitare il suo fascino, quando fra spruzzi d’acqua e cigolio di ruote i mulini evocavano storie e leggende che si riverberano perfino nel terzo millennio (non a caso il mulino ha costituito la cornice di romanzi e filmati indimenticabili; uno per tutti: “Il mulino del Po”).
Come si diceva in apertura, i mulini hanno inaugurato la stagione industriale: sostituire le macine con macchinari differenti fu estremamente facile, perché il movimento poteva essere applicato ai congegni più disparati; la rivoluzione industriale vede il passaggio dal lavoro manuale e su piccola scala nelle botteghe artigiane a quello realizzato in appositi opifici, nei quali l’energia, all’inizio specialmente per l’attività tessile, era fornita a macchine azionate dall’acqua. Ne abbiamo un esempio clamoroso a Linate: nella prima metà dell’Ottocento, dentro agli ex mulini da grano di cui il paese era dotato si installa una vera fabbrica; si trattò addirittura del primo esperimento in Italia di filatura meccanica della lana. Incredibile ma vero: con quelle macchine venne tessuta la tela per le mitiche camicie rosse dei garibaldini, patrioti del Risorgimento italiano.
Prof. Sergio Leondi