“Fimmine ribelli. Come le donne salveranno il Paese dalla ‘ndrangheta”, libro inchiesta di Lirio Abbate

"Mio padre ha due cuori: la figlia o l'onore? In questo momento dice che vuole la figlia, però dentro di lui c'è anche quell'altro fatto." Queste parole le pronuncia Maria Concetta Cacciola, trent'anni, tre figli, colpevole di aver tradito il marito e di aver deciso di collaborare con la giustizia seguendo l'esempio di Giuseppina Pesce, anche lei giovane madre, anche lei di Rosarno

Dedicato ad Anna, la figlia di Enzo, vittima di un colpo contundente alla testa una sera di agosto 2009 in un paesino della provincia di Cosenza, un omicidio mascherato. Lirio Abbate, vicedirettore de “L’Espresso” e autore di inchieste su corruzione e mafie, nonché scrittore per il cinema e la televisione, si precipita da Palermo alla chiamata della cugina. Non ci può credere che Enzo, amato e stimato da tutto il paese, sia stato colpito così all’improvviso. Perciò decide di non sottrarsi al dovere professionale e civile di raccontare le storie delle donne che hanno osato ribellarsi in questa terra di Calabria, bella ma drammaticamente complicata da vivere. E poi ritiene che da giornalista, a differenza di un magistrato, debba contribuire a fare luce e dire la verità in questo nostro Paese “martoriato e travagliato”. Lo deve alle vittime, ai familiari e ai giornalisti scomodi che se non si riescono ad imbavagliare si uccidono. E’ la sorte toccata ai Giancarlo Siani e ai Peppino Impastato, ai Pippo Fava e ai Mauro De Mauro, ai Mauro Rostagno e ai tanti altri… Un sacrificio non inutile se è servito di esempio e di sprone per intensificare le indagini contro le mafie, rendendo più stringenti le norme in vigore, organizzando gli uffici giudiziari e soprattutto, per quel che ci riguarda in questo libro di inchiesta, e poi di utilità alle tante donne, mogli, figlie e sorelle di n’ndranghetisti nel praticare la massima che ribellarsi è giusto. Non è possibile che per tutta la vita le donne soggiaciano alla violenza familiare e non possano decidere in libertà neppure di amare un uomo o di continuare a studiare o di affermarsi nella società civile. Segregate fin dalla più giovane età, anzi giovanissima, fin dai tredici anni, come Valentina R. che non acconsente alle ingiunzioni del padre di frequentare il boss locale per tutti i vantaggi che ne possono derivare; di Giusy Pesce, nipote di Antonino padre di Ciccio ‘u Testuni che nel 2010 ha scelto di ribellarsi, cominciando a collaborare con la giustizia. Ha tradito il marito e sancito così la propria condanna. “Perché la donna che tradisce o disonora la famiglia deve essere punita con la morte.” Giusy ha poco più di trent’anni, è sposata e ha tre figli, che all’epoca del suo arresto hanno quattro, nove e quindici anni. Le donne nelle famiglie della ‘ndrangheta sono considerate poco più di macchine riproduttrici, spesso maltrattate e lasciate sole a portare avanti la famiglia, dato che gli uomini quando non inseguono altre donne entrano ed escono dal carcere. La solitudine le attanaglia e, prive di ogni considerazione, alla prima occasione cercano affetto altrove e quando lo trovano non esitano a stabilire un rapporto amoroso sancendo così nello stesso tempo la loro condanna a morte. Che deve essere eseguita non dal marito ma da un membro della famiglia, per lo più da un fratello. “Preferisciu piuttostu na figghia morta ca una disonorata”, dice Antonio Napoli di Melicucco, un paesino di cinquemila anime poco distante da Rosarno, pronunciando la sentenza capitale contro la figlia Simona, che aveva osato allacciare un rapporto di amicizia come quello che tante persone hanno su facebook, con il giovane Fabrizio, che lavora da un elettrauto. Simona è consapevole che la loro fragilità li condurrà inevitabilmente ad una tragedia già annunciata. Perché le giovani mogli che vorrebbero chiudere rapporti matrimoniali che si palesano privi di amore non possono decidere di lasciare i mariti. Per il padre è inconcepibile che la figlia lasci il marito, condannando così all’infelicità perenne queste giovanissime mogli e madri. L’unica via di salvezza è ricorrere ai carabinieri e richiedere di essere sentite dai Pubblici Ministeri per accedere ai servizi di protezione. A loro confidano i pericoli che stanno vivendo e nello stesso tempo denunciano tutte le nefandezze, i delitti di cui si sono macchini i familiari, genitori e fratelli. In una lotta all’ultimo sangue nella quale il risentimento si trasforma in odio e lo scontro generazionale raggiunge il suo culmine nel rapporto con le madri, che non concepiscono questo comportamento delle figlie. La madre Rosina e la figlia Simona si fronteggiano. La madre esprime l’orgoglio di aver vissuto un’esistenza inquadrata da un sistema di regole che ha fatto sue e che la figlia ha infranto sfacciatamente portandosi a casa l’amante. Due mondi destinati a non capirsi e a non trovare una soluzione se non nella violenza della tragedia. Tutti i tentativi dei famigliari tendono a far retrocedere le figlie dalle dichiarazioni davanti ai magistrati con il ricatto dei figli. E quando non riescono cercano di farle passare per invasate, poco equilibrate, fragili al punto di ricordare i loro tentativi di suicidio e alla fine, se non si fanno sparire come Angela Costantino, le inducono ad ingerire l’acido come simbolo di purificazione e cancellazione della colpa con la fine della vita. Come il caso di Maria Concetta Cacciola che scappa da Rosarno con un programma di protezione per andare a Genova, lasciando i tre figli, che saranno usati come mezzi di dissuasione dalle denunce contro le malefatte della ‘ndrangheta. Sa che non può tornare indietro perché rischierebbe la vita per aver infranto il codice d’onore che per il padre ha la stessa sacralità della vita di sua figlia. Molte altre qui riportate hanno avuto il coraggio e sono state intrepide nell’affermare il loro diritto alla vita e all’amore. Ma non hanno trovato sollievo e affetto nelle famiglie e neppure nella società civile calabrese che non ha ancora maturato una diffusa coscienza antimafia. La gente è ancora restia a scendere in piazza e a solidarizzare con queste eroine civili, a denunciare, a rompere il muro di omertà. Lascia ben sperare il ruolo della scuola con i primi timidi tentativi di coinvolgere gli studenti e le studentesse nelle forme di consapevolezza e di coraggio nel rivendicare, pur figlie di boss, il diritto a scelte diverse, consapevoli, nel respingere la cultura dell’illegalità perché improduttiva e sconveniente. Un contributo molto importante l’ha fornito la cinematografia con il film ‘Una femmina” nella sale da febbraio di quest’anno e presentato nella sezione Panorama del Festival di Berlino. E’ prodotto da Edoardo De Angelis, autore di diversi altri film e della trilogia dedicata a Eduardo De Filippo ed è diretto da Francesco Constabile. La protagonista è Rosa, interpretata dall’esordiente Lina Siciliana, ventenne calabrese, che riunisce in un unico personaggio tutte le storie delle donne di cui parla il libro. Le abbraccia tutte in un afflato d’amore e innalza la fiamma della ribellione in nome della libertà e della vita da passare in consegna alle nuove generazioni che si battono per i diritti e la legalità, contro la criminalità e la violenza. Lirio Abbate, Fimmine ribelli. Come le donne salveranno il Paese dalla ‘ndrangheta, Rizzoli Libri, Milano 2013, pp. 208, € 10,45.

Paolo Rausa