Sakineh: cosa ne pensano gli islamici locali

L'indignazione internazionale non si ferma. «Ci sono casi che colpiscono di più l'opinione pubblica: le donne, i minorenni, quando la presunzione di innocenza è più forte - riflette Sara, giovane egiziana di Peschiera Borromeo - e ci sono modalità d'esecuzione che indignano più d'altre: la lapidazione ci disturba più dell'iniezione letale». Nel Corano la punizione indicata per l'adulterio non è la lapidazione, ma la fustigazione; eppure, la lapidazione è utilizzata in diversi stati islamici. «L’origine è in un versetto perduto - spiega Camille Eid, giornalista libanese collaboratore di Avvenire - il Corano prescrive che “la fornicatrice e il fornicatore” siano flagellati con “cento colpi di frusta”, ma i dotti musulmani sono concordi sull’esistenza di un versetto perduto, il versetto della lapidazione appunto, che sarebbe stato applicato da Maometto e dai suoi successori». E mentre nell'Islam si discute se tale punizione sia ammessa dal Corano, in Iran questa tortura è legge nell'articolo 83 del Codice penale. Un caso, quello della giovane iraniana, che punta nuovamente l'attenzione sul mondo arabo, coinvolgendo in un vortice di interrogativi tutti i membri della comunità. «La mobilitazione internazionale sarebbe condivisibile se fosse centrata sulla modalità dell'esecuzione: la lapidazione» interviene Abdul-Majeed, marocchino irregolare di San Giuliano. La lapidazione, infatti, va oltre la pena di morte, è una tortura a fuoco lento. E, nonostante Guantanamo, ogni tortura almeno formalmente non è legittimata in nessuno Stato del mondo nemmeno in tempo di guerra. «Invece, la mobilitazione internazionale – conclude Abdul prima di tornare a lavoro - non contesta la lapidazione, ma la pena capitale inflitta alla donna e anzi la vuole subito libera» strumentalizzando il caso. «Attualmente in Iran risultano pendenti, secondo un elenco del Comitato internazionale contro la lapidazione - continua Camille Eid - venti sentenze di morte, tre delle quali di uomini». Le “altre Sakineh”: pare 150 siano state lapidate finora, e altre 150 in attesa di sentenza, alcune giovanissime, come la diciannovenne Azar Bagheri, che aspetta nel braccio della morte nel carcere di Tabriz, lo stesso in cui si trova Sakineh. «Molte altre sono minorenni: i legali quasi sempre chiedono di cambiare la punizione con la fustigazione» puntualizza il giornalista libanese. Sakineh non è sola, come l'Iran non è l’unico Stato a prevedere la lapidazione: Iran, Nigeria, Arabia Saudita, Sudan, Emirati Arabi Uniti, Pakistan e Yemen, teocrazie in cui il diritto è strutturato sulla legge coranica. Senza dimenticare che la pena di morte è in vigore anche in Paesi campioni della civiltà, come gli Stati Uniti. «Ma di questi Stati non si parla: ci concentriamo su Sakineh perché vittima dell'Islam – continua con impeto Sara – e come di consueto si additano i musulmani solo per aspetti negativi che non appartengono all'Islam». La domanda è questa: le sentenza di un Tribunale iraniano su fatti che quel Paese considera reati gravi, devono essere sottoposte ai Tribunali popolari dell'Occidente? «Se ha sbagliato è giusto che sia punita. Sono contraria alla pena di morte, ma si devono anche rispettare Paesi con culture e livelli di civilizzazione diversi, senza intervenire come l'Europa sta facendo» chiosa Sara. Questo il quadro di principio della nostra comunità araba. Ma dietro i principi ci sono le persone in carne e ossa. In questo caso una giovane donna di 42 anni che rischia da un momento all'altro di essere giustiziata. Un eterno conflitto tra pietas umana e legge.

Elisa Murgese