2017 o 1917? Tra violenza sulle donne e maschilismo

Tra negazionismo del femminicidio e maschilismo quotidiano, viene ribaltata la situazione, facendo ricadere la colpa sulle donne che non denunciano, ma dove affondano le vere radici del problema?

Il Questore De Iesu dice che «Serve una maggiore cultura della denuncia da parte delle donne»

Certe cose non cambiano mai. Il 2017 si è aperto ancora con episodi di violenza sulle donne e la loro uccisione. Perché sì, ancora oggi le donne vengono uccise o picchiate dai propri partner per una parola detta col tono sbagliato, per gelosia, per un rifiuto, perché «se non ti posso avere io allora non ti avrà nessun altro». Il femminicidio è una tipologia di omicidio, come lo è l’infanticidio, e la sua definizione risiederebbe nel movente, ovvero uccidere una donna perché donna meritevole di essere uccisa, solo perché (ad esempio) ha osato lasciare il proprio ragazzo. Un affronto difficile da digerire, come vedere la propria moglie guadagnare di più, essere maggiormente acculturata o vederla seduta sul divano invece di cucinare. Da qui attacchi con l’acido, col fuoco e a colpi di accetta e accoltellamenti.

Per molti però il femminicidio non esiste, anzi, con questo termine si discriminerebbero gli uomini. Lo scriveva già qualche anno fa nel suo blog Astutillo Smeriglia, per arrivare a Cruciani ospite su Tv Talk, dove ha altresì deciso di difendere Clemente Russo, allontanato da un reality dove ha affermato: «Se becco mia moglie che mi mette le corna, la lascio morta sul letto». Frase lodevole per una persona appartenente alle forze dell’ordine. 
Molto spesso alla base della violenza nei confronti delle donne c’è il maschilismo, e per la precisione una sua derivazione specifica, ovvero il “machismo”: un atteggiamento di virilità ostentata e aggressiva. Eppure negli ultimi giorni si è parlato poco di maschilismo, si è preferito quasi ribaltare la situazione facendo pesare alle donne la loro paura nel denunciare episodi di violenza. Il questore di Milano, Antonio De Iesu, in seguito all’omicidio di Tiziana Pavani, ha affermato: «Questo ennesimo femminicidio è un campanello d’allarme, e impone una riflessione sulla necessità di una maggiore cultura della denuncia da parte delle donne». Come dimostrato da vari sondaggi, come quello redatto da “Pianeta Donna”, le donne non denunciano per una serie di motivazioni, nell’ordine: scarsa fiducia nelle istituzioni (27,3%), ad un senso di vergogna (20%) o alla paura di eventuali ripercussioni (32,7%). De Iesu parla di “cultura della denuncia”. Piuttosto bisognerebbe indagare dove affonda le proprie radici la cultura del “come uomo mi arrogo il diritto di trattare la donna come voglio in quanto essere inferiore”, la base del maschilismo, e sradicarlo dalla quotidianità.

Il problema reale è che in Italia ogni ambito è caratterizzato da discriminazione sessista, e chiunque può averlo provato sulla propria pelle o avervi assistito da spettatore. Bastano dei semplici esempi. Si prenda una ragazza che commenta un post su Sky Sport, se scrive qualcosa di non condiviso da altri tifosi verrà sommersa da «Torna in cucina», «Vai a fare il bucato» o «Ah le donne quindi pensano?». Per non parlare di quando si indossano tacchi o minigonna, fischi e frasi di ogni tipo, compresi inviti sessuali, sono ad attendere la malcapitata proprio dietro l’angolo. Inoltre negli ultimi anni si sta assistendo a una ripresa dei fenomeni maschilisti, diffusi anche tra le nuove generazioni…perché? Semplice: la società ha permesso la denigrazione della figura della donna. Dai programmi televisivi, dove le donne sono per la maggior parte un bellissimo decoro vuoto, posto a fare semplice presenza, alle pubblicità ancora piene di rimandi sessisti, tutto sembra proporre nell’immaginario maschile l’idea di una donna-oggetto. A peggiorare la situazione è stato Instagram, pieno di ragazze che hanno fondato il proprio successo sull’esposizione (totale) del corpo, e sul seguito maschile che ne consegue. Per loro un “#escile” in più fa solo piacere, il problema è che poi molti ragazzi pensano sia normale nella vita vera definire tutte le donne “cagn..” “tr…” “zo…” magari solo perché ti sei rifiutata di dargli una sigaretta.

Ci si potrebbe chiedere se non si stia esagerando a mettere in correlazione tutto questo con la violenza sulle donne e i femminicidi. La risposta è no. Quante volte si è sentito parlare di una ragazza violentata come di colei che «Se l’è andata a cercare»? Apriti cielo poi se aveva osato bere un bicchiere di troppo o vestirsi in modo accattivante. La vittima diventa corresponsabile e viene subitamente giudicata. Quante volte abbiamo sentito ragazzi elencare tra le proprie qualità «io ti ho sempre rispettato, non alzerei mai un dito su di te»? come per dire “ti è andata bene a trovare uno che non alza le mani e non ti insulta”. Quante volte si sentono casi di cronaca in cui donne sono portate al suicidio per un video hard finito in rete? Nei video c’è sempre anche un “lui”, ma è solo “lei” ad essere additata come prostituta. Ecco, tutto questo potrà sembrare normale, ma non lo è. È sintomo di qualcosa che non va, di un intero sistema da resettare.

È inutile fare ricadere le colpe sulle donne che hanno troppa paura di denunciare il proprio marito, ragazzo, stalker, vicino o parente, o meglio, è troppo facile trovare il capro espiatorio ancora tra le donne. Se si vuole giungere  a un reale cambiamento, rendendo questa società un luogo sicuro per le donne, e dove davvero si potrà raggiungere la parità di sessi, allora è necessario intervenire con progetti di sensibilizzazione a livello nazionale, coinvolgendo tutte le generazioni, fin dalla tenera età. Allora forse, tra una decina d’anni, potremo assistere a segnali positivi per il futuro. Perché ancora oggi, nascere femmina in Italia, è sinonimo di una prospettiva di vita non semplice.


Stefania Accosa

https://www.youtube.com/watch?v=9_hFQdP0su8