Il posto giusto in cui morire


Invece in Italia un detenuto si suicida, dopo mesi in cui era chiara la sua intenzione. Succede a Luca Campanale, 28 anni, al San Vittore di Milano.
Tutte le morti fanno male, ma quelle evitabili ancora di più. E allora ci si interroga sulle responsabilità, dopo. Perché in Italia si arriva sempre. Dopo. Soprattutto ci si deve interrogare quando, nei colloqui in carcere con i detenuti che hanno comportamenti altalenanti, gli si chiede se hanno pensieri suicidi e ci si ferma alla risposta negativa. Perché è questo che è successo a Luca, in carcere.
A seguito di un brutto incidente, avvenuto all’età di 17 anni, Luca presentava i postumi di invalidità psichica, aggravata dal fatto che il ragazzo aveva incominciato ad assumere alcool e stupefacenti. Era in carcere per scippo, per il quale stava scontando la pena di due anni di reclusione e successivi sei mesi di permanenza in una casa di cura e custodia, riconosciutagli una diminuente per vizio parziale di mente. A niente sono contati i due precedenti tentativi di suicidio, due trattamenti sanitari obbligatori e numerosi ricoveri in comunità di recupero per tossicodipendenti: nessun vizio totale di mente ad una persona che stava sì in carcere ma che più che un delinquente era una vittima di se stesso. E ora rimangono le numerose lettere, nero su bianco, spedite dall’avvocato di famiglia e dal padre del detenuto, Michele Campanale, con le quali entrambi, preoccupati per lo stato di salute mentale del ragazzo che peggiorava palesemente, sollevavano da mesi alla Direzione Sanitaria del carcere e alla terza sezione penale della Corte d’Appello di Milano timori circa la salute psico-mentale del ragazzo, in particolare a seguito di suoi comportamenti deliranti e autolesionistici. Tutta carta straccia. Anche l’istanza urgente depositata dal legale di fiducia in data 22 giugno 2009 con la quale si chiedeva “l’immediato ricovero presso idonea struttura sanitaria”. Rigettata in data 24 luglio 2009. Diciannove giorni dopo quest’ultima ordinanza di rigetto, Luca veniva trovato impiccato nel bagno della sua cella presso la casa circondariale di S. Vittore. E ora rimane il dramma di una famiglia distrutta dal dolore, a cui rimangono innumerevoli dubbi e domande che probabilmente non troveranno mai risposta.

In Italia nei primi 8 mesi del 2009 sono stati 118 i decessi tra la popolazione detenuta, di cui 45 per suicidio. Altri due sono deceduti nelle prime due settimane di settembre, nel carcere di Pavia e di Teramo: uno con sacchetto e bomboletta del gas, l’altro per sciopero della fame per quasi due mesi. Ed il dato è in costante crescita. Proprio per questo la senatrice Poretti, dei Radicali, ha già pronta un’interrogazione da sottoporre al Ministro di Giustizia Alfano, con la quale si vuole dare la luce a fatti che troppo spesso rimangono imprigionati tra quelle stesse mura e quelle stesse sbarre che separano il mondo dei ”bravi” dal mondo dei ”cattivi”. Chiedendoci poi se è vero sia sempre  così.
Chiedendoci se è possibile che, in un paese dove i politici discutono da anni sulla legittimità del testamento biologico, un ragazzo di 28 anni in un momento di follia sia potuto morire in una struttura che doveva sorvegliarlo. Se si può parlare in Parlamento della possibilità di far decidere ad altri della propria vita in un momento futuro in cui non si disporrà più di lucidità, quando nel caso singolo non si è dato minimamente ascolto a parenti e a un avvocato che da mesi urlavano che Luca non era lucido e la sua vita era minacciata da se stesso.
Luca poteva e doveva essere salvato. Luca doveva essere sorvegliato, curato e monitorato.

E allora se è vero che c’è giustizia adesso è arrivato il turno di Luca per chiederla.