I paradossi della paura nel Ventunesimo secolo

Senza entrare in disquisizioni di tipo sanitario, sembra che l'angoscia sia diventata compagna inseparabile dei nostri giorni. Se già il Novecento è stato il secolo dell'inquietudine, gli anni Duemila come potranno essere ricordati? Sicuramente come quelli delle paure. In parte reali, in parte immaginate, in parte paradossali. In quest'ultima categoria rientrano la maggiore parte dei timori quotidiani: siamo sempre più grassi e abbiamo paura che ci venga a mancare il cibo; siamo sempre più controllati - e curati - e temiamo tremendamente le malattie; abbiamo sempre più cose materiali e abbiamo paura di diventare poveri.

A volte i nostri schemi di ragionamento sembrano fuori controllo, scollegati dalla realtà. L'ansia dovrebbe nascere di fronte a un problema reale: la fame, la sete, un'epidemia, la mancanza di un rifugio dove dormire, il rischio che la propria casa possa saltare in aria a causa di una bomba. Questo genere di paure, ben note alla generazione dei nostri nonni, noi non l'abbiamo mai conosciuto. Ci siamo adagiati su un tappeto di benessere materiale, confondendo - forse incolpevolmente - il necessario col superfluo, ciò che conta davvero da ciò che ha poco significato.

La paura del Ventunesimo secolo è soprattutto la paura astratta, incerta, non definita, che razionalmente a volte fa persino sorridere. Un'inquietudine che può essere arginata con la consapevolezza che la precarietà per ogni uomo è un limite ma anche una benedizione, e che ciò che temiamo spesso nemmeno esiste. Come disse Montaigne: "La mia vita è stata piena di terribili disgrazie, la maggior parte delle quali mai avvenute".