Il caso Genovesi: la morte che sconvolse Milano
Soldi, gelosia, un matrimonio in crisi e una pistola. Cosa accadde davvero quella notte di novembre del 1977? Fu un suicidio, un incidente oppure un delitto?
Negli ultimi giorni di novembre del 1977, Milano si preparava all’arrivo del Natale. Le strade iniziavano a risplendere delle prime luminarie, mentre gli addobbi cominciavano a comparire lungo i viali, preannunciando l’imminente atmosfera festiva. A breve, molte case avrebbero accolto i primi alberi decorati, probabilmente anche un edificio elegante situato in via dei Loredan, nel cuore della raffinata zona di San Siro. Nulla, tuttavia, lasciava presagire l’evento drammatico che di lì a poco avrebbe sconvolto quel luogo: una sciagura profonda, come verrà poi definita.
La vicenda che si consumò in quella residenza resta ancora oggi avvolta da molte zone d’ombra. Era il 30 novembre 1977. Nella villa al civico 4 di via dei Loredan abitava Ezio Genovesi, ingegnere cinquantacinquenne, figura di spicco nel settore dell’industria olearia. Con lui viveva la moglie, Maria Innocenti, di vent’anni più giovane. I due erano sposati da tre anni. Maria era figlia di un noto professionista veronese.
Ezio Genovesi continuava a fare regali a sua moglie, nonostante il momento difficile che stavano attraversando. Di recente, le aveva donato una pelliccia appartenuta a sua madre, un gesto affettuoso ma incapace di mascherare la realtà ormai evidente: il loro rapporto si era irrimediabilmente raffreddato. Ezio e Maria avevano preso una decisione difficile e dolorosa: separarsi. Eppure, nonostante la scelta fosse definitiva, sembravano incapaci di recidere del tutto il legame che li univa. Avevano stabilito che Maria sarebbe tornata a vivere a Verona, nella casa dei suoi genitori, mentre l’appartamento milanese di via dei Loredan sarebbe rimasto anch’esso a lei ma avrebbe continuato a riservare una stanza per Ezio. Forse un modo per mantenere un contatto, una forma di continuità, persino nella fine.
La vita di Maria in quel frangente era particolarmente gravosa. Affrontava difficoltà nel riposo notturno e assumeva sonniferi per cercare sollievo. Inoltre, sempre più frequentemente, ricorreva al whisky, bevendone un po' per rilassarsi. L'ingegner Genovesi, d'altro canto, viveva tormentato da una vera e propria ossessione: una paura viscerale di poter essere rapito. Questa fobia aveva influenzato profondamente la sua vita quotidiana. Aveva fatto installare nella villa un complesso e sofisticato sistema di allarme che proteggeva porte e finestre. Non solo, portava costantemente con sé un'arma da fuoco: una pistola Beretta calibro 7,65. Il suo timore si era acuito in seguito ad un evento traumatico avvenuto alcuni anni prima: il sequestro di un altro industriale, un suo vicino di casa, Aldo Cannavale.
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La tragedia
Il 2 dicembre 1977, un venerdì, la routine nella villa fu bruscamente interrotta. La domestica che lavorava per i coniugi Genovesi udì all'improvviso un rumore sordo e inequivocabile. Era uno sparo. Il suono proveniva dalla camera da letto padronale. La donna si precipitò immediatamente verso la stanza. La scena che vide al suo ingresso fu di un'intensità agghiacciante. L'ingegner Genovesi giaceva a terra, colpito da una ferita alla testa. Accanto a lui, sua moglie Maria appariva in uno stato di profondo turbamento, sconvolta e tremante. Sul divano, poco distante, era appoggiata la pistola. Ezio era rannicchiato in prossimità del comodino e teneva ancora la cornetta del telefono in mano.
Fu chiamata un'ambulanza che giunse rapidamente sul posto. Tuttavia, ogni sforzo fu vano. Per l'uomo non c'era più nulla da fare. Morì poco dopo, durante il trasporto in ospedale. All'arrivo delle forze dell'ordine, la polizia trovò la moglie di Ezio Genovesi ancora seduta sul divano. Era in un evidente stato di shock, con accanto la domestica che cercava di fornirle sostegno e conforto.
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Le prime dichiarazioni
Entrambe le donne vennero sottoposte ad interrogatorio. Maria Innocenti fornì una prima versione dei fatti: raccontò di essere entrata nella camera da letto e di aver visto il marito con la pistola in mano. Pochi istanti dopo il suo ingresso, si era verificato lo sparo. Maria riferì di aver abbracciato il marito e di aver invocato aiuto. Questa prima dichiarazione sembrava indirizzare le indagini verso l’ipotesi di un gesto volontario da parte dell’ingegnere: un suicidio.
Maria mantenne questa versione per circa sette ore, ma, sottoposta ad un incalzante interrogatorio da parte della polizia, fornì una narrazione differente. Raccontò che, in quel momento cruciale, Ezio stava parlando al telefono, poco prima che partisse il colpo, che lei definiva accidentale. L’uomo stava conversando con la madre di Maria e i due stavano discutendo della sistemazione della figlia in un appartamento a Verona. Maria riferì che il marito le aveva chiesto di passargli la pistola, un’arma che portava sempre con sé per timore di sequestri. Lei aveva fatto per porgergliela, quando, inavvertitamente, il colpo era partito.
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Le perizie smentiscono tutto
Il magistrato inquirente, di fronte alla gravità del fatto e alle versioni contrastanti, dispose immediatamente l'esecuzione delle perizie tecniche e balistiche necessarie per chiarire la dinamica precisa degli eventi. I risultati di queste perizie si rivelarono determinanti e smentirono in modo perentorio tutte le versioni fornite inizialmente dalla moglie. L'analisi forense stabilì che Ezio Genovesi era stato colpito da una distanza molto ravvicinata, di circa 20 centimetri. Non solo: la traiettoria indicava che la persona che aveva sparato si trovava dietro di lui e aveva puntato l'arma dall'alto verso il basso. Le conclusioni peritali furono chiare: si trattava senza alcun dubbio di un omicidio, non di una disgrazia o di un incidente.
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Il movente
Secondo l'interpretazione iniziale del giudice Galati, il movente più plausibile era da ricercarsi nel deterioramento e nella fine del matrimonio. La convivenza tra Genovesi e sua moglie era diventata in quel periodo insostenibile, al punto che i due avevano formalmente preso la decisione di separarsi. Fu proprio Maria Innocenti a confermare che il loro rapporto era lontano dall'essere ancora idilliaco. Dichiarò che il loro era stato un'unione nata dall'amore, ma ammise che i loro caratteri non erano sempre armonici. Descrisse Ezio come autoritario, una persona che pretendeva sempre di avere ragione, e aggiunse che lei cedeva quasi sempre, senza obiezioni.
Coloro che li conoscevano bene raccontarono di un aspetto ricorrente nella loro relazione: Ezio Genovesi sembrava rimproverare spesso alla moglie, nonostante la differenza d'età di vent'anni, di averlo sposato unicamente per le sue sostanze. Questo, a detta dei testimoni, era uno dei motivi principali per i quali litigavano con frequenza. Inoltre, in quel periodo sembrava che Maria Innocenti avesse cominciato ad avere problemi con l'alcol, iniziando a bere con una certa regolarità.
Diversi testimoni, in particolare, riferirono che negli ultimi tempi Maria era effettivamente vittima di soprusi e di assurde scenate di gelosia da parte del marito. Altre testimonianze dipinsero un quadro in cui Ezio Genovesi, dietro le spalle di Maria, diffondeva menzogne sul suo conto parlandone male con amici e conoscenti, mentre poi, in sua presenza, si comportava in modo affettuoso e "da uomo innamorato". Il legale di Maria, in seguito, smentì categoricamente che i due avessero litigato poco prima della morte di Ezio, come invece sostenuto dall'accusa.
Il rapporto, dunque, sembrava complesso e teso. Nonostante tutto, Maria Innocenti dichiarò in seguito di aver amato il marito, e la difesa produsse lettere e testimonianze per provarlo. La decisione di separarsi era vista da alcuni come un tentativo di risolvere la situazione. Avevano deciso di tornare per un po' a vivere in modo indipendente, quasi come "fidanzati", con Maria che si sarebbe trasferita temporaneamente a Verona per stare vicino alla madre.
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L'accusa di omicidio volontario
Due mesi dopo i fatti drammatici, il giudice istruttore Galati apportò
una modifica sostanziale all'accusa a carico di Maria Innocenti. L'imputazione
fu corretta da omicidio colposo a omicidio volontario aggravato. L'accusa
riteneva che la donna avesse intenzionalmente premuto il grilletto dopo aver
puntato l'arma direttamente alla nuca del marito, proprio mentre questi era
impegnato in una conversazione telefonica, con il chiaro intento di ucciderlo.
A distanza di un anno esatto dai fatti di via dei Loredan, la donna
venne formalmente rinviata a giudizio. Maria Innocenti, di fronte alle
autorità, aveva continuato a sostenere che la morte del marito fosse stata causata
da quello che definiva un tragico errore, un tragico incidente, e continuò a
sostenere la sua versione. Il colpo era partito accidentalmente nel momento in
cui stava porgendo la pistola ad Ezio, quell'arma da cui non si separava mai ed
era diventata una vera e propria ossessione. Tuttavia, il giudice istruttore
mantenne ferma la sua posizione e non credette alla versione dell'imputata. La
donna fu quindi condotta in carcere. Successivamente, a causa del manifestarsi
di problemi di salute, in particolare legati al cuore, fu necessario
ricoverarla in una clinica. Per motivi medici venne poi scarcerata il 20 luglio
del 1979.
Il primo processo
Passò un altro anno dalla scarcerazione. Il 24 giugno del 1980, Maria Innocenti si presentò in aula per l'inizio del processo a suo carico. Era visibilmente sofferente e fu sostenuta nel suo ingresso dal suo medico curante. Vestita di bianco, prese posto davanti al presidente del tribunale, Cusumano. In quell'occasione raccontò nuovamente la sua versione dei fatti. Fornì dettagli su come si era svolta la scena nella camera da letto: il telefono squillò, riferì, e suo marito, che si trovava nello spogliatoio, si precipitò in camera. Appoggiò sul letto alcuni oggetti che aveva in mano, tra i quali c'era la pistola. Poi sollevò la cornetta del telefono ed era sua madre che chiamava da Verona. Maria raccontò che suo marito le chiese "dammi", tendendo la mano verso il letto. Non precisò esattamente cosa volesse, ma lei, istintivamente, pensò alla pistola e gliela porse. In quel preciso istante, secondo il suo racconto, partì il colpo.
Maria Innocenti aggiunse di non ricordare nient'altro immediatamente dopo l'esplosione. L'unico ricordo sensoriale vivido che le era rimasto era l'odore pungente e acre della polvere da sparo. Le furono poste domande specifiche riguardo alla sua familiarità con le armi. Le domandarono se sapesse come si carica una pistola; la sua risposta fu un netto "no, non lo so". Dichiarò inoltre di non sapere perché suo marito le avesse chiesto proprio la rivoltella, e di non essere certa nemmeno se volesse l'arma o qualcos'altro in quel momento. A sostegno della versione della donna, che implicava un errore o una fatalità piuttosto che un atto volontario, fu prodotta la testimonianza di un maresciallo di polizia. Questo maresciallo era amico della coppia e confermò in aula che Maria non era assolutamente in grado di maneggiare un'arma da fuoco.
Durante il dibattimento, Maria Innocenti ripercorse la storia del suo matrimonio con Ezio Genovesi. Parlò delle loro frequenti discussioni, sottolineando però che, a suo dire, non sfociavano mai in scontri veri e propri. Raccontò del loro fidanzamento, durato quattro anni e mezzo, del matrimonio, delle discussioni che avevano caratterizzato gli ultimi tempi e della decisione che avevano preso di allontanarsi per un po'.
Parallelamente ai resoconti sulla vita coniugale, emersero dettagli sulla figura di Ezio Genovesi. Si seppe che Genovesi aveva dovuto affrontare, negli ultimi tempi, alcune difficoltà economiche relative alla sua attività. Nonostante ciò, aveva rifiutato l'aiuto finanziario che gli era stato offerto dalla moglie. Questo dettaglio, unito alle precedenti testimonianze sui litigi legati al denaro, contribuiva a delineare un quadro complesso della situazione finanziaria e relazionale della coppia.
Il pubblico ministero, dottor Pierluigi Dell'Osso, non ritenne in alcun modo credibile la ricostruzione dei fatti fornita dalla donna. Chiese per Maria Innocenti una condanna severa: sedici anni di carcere. Richiese tuttavia la concessione delle attenuanti generiche. La requisitoria del PM durò circa due ore, durante le quali il magistrato espose la sua convinzione riguardo alla colpevolezza dell'imputata. Sostenne che Maria avesse agito in uno stato di ira. Secondo la visione dell'accusa, il rapporto tra lei e il marito, pur contenendo elementi di affetto, gelosia e possessività, era basato soprattutto su interessi materiali e una profonda incompatibilità di carattere. Questa ricostruzione si contrapponeva in parte alle testimonianze che descrivevano Maria come vittima delle scenate di gelosia del marito.
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La prima sentenza shock
Il 27 giugno del 1981, il processo di primo grado, celebrato in Corte d'Assise, giunse a una conclusione che molti definirono inaspettata. Maria Innocenti venne dichiarata non punibile. La motivazione addotta dai giudici fu che il fatto era dipeso da caso fortuito. La Corte non si limitò ad accogliere la versione della donna, secondo la quale il colpo sarebbe partito accidentalmente mentre porgeva la pistola al marito, ma andò oltre, escludendo persino la colposità dell'omicidio, come se l'arma non fosse stata neppure maneggiata dall'imputata nel momento dello sparo. Alla lettura di questa sentenza, che la proscioglieva da responsabilità penali, Maria Innocenti scoppiò in lacrime. Il pubblico ministero, manifestando il suo disaccordo e ritenendo la decisione ingiusta, dichiarò immediatamente che avrebbe presentato appello contro quella sentenza.
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L'appello e le nuove perizie
Il processo d'appello ebbe inizio circa due settimane dopo, venerdì 3 luglio 1981. Il rappresentante dell'accusa, determinato a ribaltare il verdetto di primo grado, chiese che venissero interrogati due nuovi testimoni, presentati come amici dell'imputata. Inoltre richiese l'esecuzione di nuove indagini tecniche: una nuova perizia con il guanto di paraffina e un'ulteriore perizia balistica. Quest'ultima indagine tecnica era specificamente richiesta per verificare se una pistola con il cane alzato potesse effettivamente esplodere un colpo senza che il grilletto venisse intenzionalmente premuto. A queste richieste si oppose con fermezza la difesa di Maria Innocenti, rappresentata dall'avvocato Della Valle. Tuttavia, dopo la Camera di Consiglio, la Corte d'Appello accolse tutte le richieste avanzate dal procuratore generale. Il processo fu quindi rinviato per consentire l'esecuzione di questo supplemento di perizie.
La nuova perizia balistica, effettuata come richiesto dall'accusa, portò a una nuova, significativa svolta. Accertò che l'arma da cui era partito il colpo fatale era effettivamente difettosa e, a causa di questo difetto, era sensibile a ogni minimo spostamento, potendo quindi sparare senza una volontaria pressione del grilletto. Contestualmente, la nuova prova del guanto di paraffina diede un risultato che parve ancora più decisivo. Questa analisi tecnica escluse che la moglie di Genovesi potesse aver materialmente sparato, di fatto scagionandola completamente dall'esecuzione materiale dello sparo.
Nonostante le risultanze di queste nuove perizie, che sembravano dimostrare l'estraneità di Maria allo sparo, il pubblico ministero continuò a mettere in discussione l'affidabilità del risultato. In particolare, sostenne che l'esito del guanto di paraffina non fosse attendibile poiché il rilievo era stato effettuato a distanza di troppe ore rispetto al momento dello sparo. Secondo la sua argomentazione, Maria Innocenti avrebbe avuto tutto il tempo di lavarsi ripetutamente le mani, eliminando così le tracce di polvere da sparo che avrebbero potuto incriminarla. A sostegno della tesi accusatoria, il perito di parte dell'accusa fornì un ulteriore elemento. Sostenne che se la Beretta fosse stata veramente tenuta solo sul palmo aperto da Maria, come lei aveva sempre affermato nella sua versione dei fatti, e non impugnata saldamente con l'intento di fare fuoco, sulla pelle della donna si sarebbero dovute trovare delle tracce. Nello specifico, si riferiva a piccole lacerazioni lasciate dalle parti metalliche dell'arma durante la fase di rinculo, il che implicava che, per sparare, l'avrebbe dovuta impugnare con forza. Ribadendo la tesi del movente, l'accusa continuò a sostenere che Maria Innocenti avesse ucciso suo marito per motivi legati a interessi economici.
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La ripresa del processo
Il processo d'appello riprese il 17 novembre del 1983. Nel frattempo, la vita di Maria Innocenti era cambiata; si era trasferita a vivere a Verona. Si presentò in aula quel giorno con un aspetto descritto con precisione: indossava un completo a righe e una camicetta bianca, i capelli erano raccolti in una coda di cavallo bassa e il suo volto era struccato. Durante l'udienza del 30 novembre del 1983, l'avvocato difensore Della Valle si concentrò nel smentire uno dei punti che l'accusa aveva ritenuto un elemento di prova. Sostenne che non fu Maria Innocenti a dire inizialmente che il marito avesse deciso di farla finita; furono altri a sostenere quella tesi, e Maria si era limitata a confermarla in un momento di grave stato di shock, non perché fosse la sua reale convinzione o un tentativo di depistaggio.
L'accusa, nonostante le perizie e le argomentazioni della difesa, rimase ferma sulla tesi del delitto volontario. Individuò nuovamente il movente nella frustrazione della donna. Secondo l'accusa, Maria Innocenti, pur provenendo da una famiglia benestante e avendo sposato un uomo considerato miliardario, era una donna fortemente frustrata. A rafforzare questa visione, l'accusa ipotizzò che suo marito, Ezio, avesse ormai deciso di fare annullare il matrimonio attraverso la Sacra Rota.
Il legale della difesa di Maria Innocenti smentì categoricamente tutte queste affermazioni dell'accusa. Dichiarò che l'imputata non era affatto frustrata, che amava profondamente il marito, e che esistevano lettere e testimonianze a dimostrarlo. Anzi, al contrario, sostenne che era Ezio Genovesi che non esitava a denigrare la moglie parlandone male apertamente davanti ad amici e conoscenti. L'avvocato di Maria smentì anche l'ipotesi che poco prima della morte ci fosse stato un litigio tra i coniugi, come invece affermato dall'accusa, e tentò ancora una volta di dimostrare che il proiettile che aveva ucciso Genovesi era partito in modo accidentale. Ripeté che la pistola aveva già il colpo in canna e che fu sufficiente un nonnulla affinché l'imputata, descritta come totalmente incapace di usare armi, sfiorasse il grilletto. "Si è trattato di un'evenienza tragica e imprevedibile", concluse la difesa.
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Il mistero dei libretti scomparsi
Indipendentemente dall'esito del processo per omicidio, le indagini giudiziarie non si erano esaurite con la morte dell'ingegnere. Era emersa e proseguiva un'altra strana vicenda: la sera stessa in cui Ezio Genovesi fu trovato morto, dalla sua casa erano spariti alcuni libretti al portatore. Questi documenti bancari contenevano depositi per una cifra ingente: circa quindici miliardi di lire. Solo un paio di questi libretti vennero successivamente rintracciati, trovati in possesso di due persone: l'ex segretaria privata dell'ingegnere e alcuni avvocati che erano amici dei coniugi Genovesi.
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La sentenza definitiva
Nella sentenza d'appello, Maria Innocenti fu giudicata responsabile. Contrariamente alla decisione di primo grado che l'aveva dichiarata non punibile per caso fortuito, in appello venne condannata a un anno e sei mesi di reclusione per il reato di omicidio colposo. Il sostituto procuratore generale, Gerardo D'Ambrosio, ritenne insufficiente questa condanna e presentò ricorso alla Corte di Cassazione. Nel suo ricorso espose una serie di considerazioni relative alla dinamica dei fatti, alla perizia balistica, alla personalità dei protagonisti e all'andamento del matrimonio. Tuttavia, la Corte di Cassazione confermò la condanna emessa in appello. Per la giustizia italiana, la morte di Ezio Genovesi fu classificata come una disgrazia. Nonostante la condanna a un anno e sei mesi, Maria Innocenti aveva già scontato un periodo significativamente più lungo di carcerazione preventiva: due anni e mezzo.
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Gli strascichi giudiziari
Trascorsero cinque anni. Il 25 giugno del 1988, il nome di Maria Innocenti riapparve nelle pagine dei giornali, ma non direttamente per la vicenda del marito, bensì per uno strascico giudiziario collegato ai fatti. Suo padre e suo fratello erano stati condannati per estorsione. La complessa vicenda della morte dell'ingegner Genovesi aveva avuto questo seguito legale inatteso. Oltre al padre e al fratello di Maria Innocenti, erano stati rinviati a giudizio anche l'ex segretaria di Genovesi, Mariangela Borsani, l'avvocato Livio Florio, che era consulente della Padana Idrocarburi, la società di Genovesi, e Caterina Casiraghi, la vedova dell'avvocato Curradi, che era stato il legale della famiglia Genovesi, ma che era deceduto prima dell'inizio del processo.
Secondo l’ipotesi accusatoria, i cinque imputati avrebbero ordito un piano, al quale Maria Innocenti, ritenuta estranea dagli inquirenti, non avrebbe preso parte e per questo non mai iscritta nel registro degli indagati. La somma dei quindici miliardi spariti dai libretti era legata, in parte, agli interessi di Maria Grazia Scanzianti, una donna che aveva avuto una figlia da Ezio Genovesi prima che questi si sposasse con Maria. Mentre il procedimento penale per omicidio pendeva a carico della moglie (e la legge prevede che tale procedimento inibisca i diritti di successione), il padre e il fratello della Innocenti avrebbero esercitato pressioni per costringere la signora Scanzianti a rinunciare definitivamente a qualsiasi rivalsa sui miliardi depositati sui libretti al portatore. In cambio, la Scanzianti si sarebbe dovuta accontentare di una consistente fetta del lascito ereditario. Per questi fatti, la prima sezione penale del tribunale arrivò ad una sentenza: Innocenti padre e figlio furono condannati a due anni di reclusione per estorsione. La pena fu tuttavia condonata. Vennero invece assolti dal reato di furto dei libretti.
Il motivo per cui quei libretti erano stati fatti sparire era, secondo l'accusa in questo filone processuale, che essi potevano al momento della morte di Genovesi costituire un potenziale movente per l'omicidio. Nell'ambito di questo stesso processo secondario, Mariangela Borsani, l'ex segretaria di Genovesi, fu prosciolta con formula piena dall'accusa di furto. Anche Caterina Casiraghi, la vedova dell'avvocato Curradi, fu assolta. Lo stesso per Livio Florio, il consulente dell'azienda di Genovesi, che venne assolto dal reato di ricettazione.
Epilogo
Queste sentenze, tra condanne e assoluzioni, posero fine a una vicenda giudiziaria indubbiamente complicata. Per i giudici che si pronunciarono in appello e Cassazione, quella sera del 30 novembre 1977, nella camera da letto di quella villa elegante in via dei Loredan a Milano, si era consumata una tragedia. E, in ultima analisi, le perizie balistiche effettuate nel corso degli anni, in particolare quelle che attestavano il difetto dell'arma, dettero sostanzialmente ragione alla versione della moglie di Genovesi. Dopo la sentenza definitiva che confermò la condanna per omicidio colposo e la classificazione del fatto come "disgrazia", Maria tornò a vivere nella sua città d'origine, Verona. Di lei, da quel momento in poi, non si seppe più nulla.
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