Il Giallo di Monza: la misteriosa fine di Elvira

Era una calda giornata estiva, quella del 29 luglio 2009, quando Elvira Monguzzi fu trovata senza vita nella sua casa, pochi giorni prima di partire per le vacanze. Un delitto inquietante, senza colpevoli, che lasciò la città sconvolta e che ancora oggi resta avvolto nell'ombra.

Era il 29 luglio 2009, una calda giornata estiva, quando Elvira Monguzzi, pensionata di 79 anni, venne trovata senza vita nel suo appartamento nel centro città. Una scena di ordinaria serenità che si trasformò all’improvviso in un crimine senza colpevoli. Le indagini, che portarono all’iniziale sospetto del fratello Emilio, si conclusero anni dopo con un’assoluzione definitiva. Il caso rimase irrisolto, consegnando alla città uno dei suoi misteri più inquietanti. 

Quel giorno, Emilio Monguzzi, allora sessantatreenne, aveva accompagnato la sorella per delle commissioni mattutine. Come ogni anno, i due stavano per partire insieme per una vacanza estiva in montagna, accompagnati dalla moglie di Emilio. Tornati a casa, l’uomo la lasciò poco prima di mezzogiorno, senza immaginare che sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto sua sorella viva. Dalle ricostruzioni effettuate in seguito, si capì che Elvira, subito dopo essere rientrata, aveva cominciato a preparare il pranzo, ma non fece in tempo a mangiare: poco dopo, venne aggredita. Secondo l’autopsia, fu colpita alla testa, probabilmente con un oggetto pesante come il peso di una vecchia bilancia, ma le lesioni non furono letali. Il decesso fu invece attribuito a soffocamento: l’assassino, dopo averla stordita, le premette qualcosa di morbido sul volto, forse un cuscino, per privarla del respiro.


Immagine generata con AI

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Preoccupato perché non riusciva a mettersi in contatto con lei, Emilio tornò a casa della sorella verso sera, intorno alle 18, trovandola esanime. Chiamati i soccorsi, riferì di essersi chinato sul corpo per accertarsi della sua condizione, un gesto che però, involontariamente, lo rese subito sospettato: sui suoi pantaloni vennero trovate delle tracce di sangue. Emilio affermò che il sangue era rimasto sui suoi abiti nel tentativo di spostare il corpo della sorella, ma per gli inquirenti si trattava di schizzi compatibili con le ferite inflitte alla testa della donna. Da quel momento, l’uomo diventò il principale indiziato.

Gli amici e i familiari, tuttavia, difesero fin da subito la sua innocenza. Emilio ed Elvira avevano un rapporto molto stretto: la sorella maggiore, con sedici anni di differenza, lo aveva cresciuto come un figlio. Testimonianze di conoscenti e familiari dipingevano il loro legame come privo di tensioni o motivi di conflitto. Persino la cugina, durante il processo, ricordò come i due fossero inseparabili, descrivendo un affetto simile a quello di una madre verso il figlio.

Nonostante le sue parole e il sostegno della famiglia, le indagini si concentrarono su di lui. Tra gli elementi di indagine, emerse anche la figura di una vicina brasiliana, conosciuta per chiedere piccole somme di denaro ad Elvira. La donna, inizialmente sospettata, risultò avere un alibi che la collocava lontano dalla scena del crimine, e il suo nome venne infine scartato dagli investigatori. Tuttavia, non tutti credettero nella sua innocenza; alcuni ritenevano che fosse stata abbandonata troppo presto una pista potenzialmente interessante, ma senza prove concrete non si poté procedere.

Nel frattempo, i magistrati analizzarono la scena del crimine, che suggeriva una possibile rapina: dal portafoglio di Elvira mancavano circa 300/400 euro, oltre a diversi gioielli che conservava con cura. L’ipotesi che il ladro fosse entrato per derubare e fosse stato colto in flagrante restava plausibile. In assenza di segni di effrazione, tuttavia, si supponeva che l’assassino fosse stato ricevuto dalla donna o avesse trovato la porta aperta, dettaglio che lasciava una molteplicità di scenari aperti.

Immagine generata con AI

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Durante i lunghi mesi di indagini, Emilio venne monitorato dagli inquirenti. Alcune intercettazioni ambientali riportavano frasi ambigue che potevano far pensare a un senso di colpa da parte sua, ma gli esperti della difesa contestarono la validità di questi elementi, sostenendo che si trattasse di semplici sfoghi personali in un momento di confusione emotiva. Anche le macchie di sangue rimasero un punto controverso: secondo i periti, quelle tracce potevano essere compatibili con il contatto diretto con il corpo della vittima piuttosto che con un’aggressione.

La vicenda giudiziaria culminò anni dopo, nel 2013, con l’assoluzione di Emilio Monguzzi, decretata dalla Corte d’Assise di Monza. La sentenza affermava che non esistevano prove sufficienti per accusarlo: tra fratello e sorella non c’erano motivi di conflitto economico, né tensioni di alcun tipo, e l’idea di un movente appariva inverosimile. La Procura decise di non presentare appello, e l’assoluzione di Emilio divenne definitiva. Dopo quattro anni, Emilio poteva finalmente liberarsi da un incubo e tornare alla sua vita di pensionato.

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Il ricordo della sorella Elvira e del tragico evento, però, non abbandonò mai i suoi pensieri. Il caso Monguzzi, diventato tristemente noto a Monza, rimane ancora oggi irrisolto. La verità su chi possa averla uccisa e perché, a distanza di anni, non è mai emersa, e la sua memoria continua a riemergere come uno dei misteri più oscuri della città.

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