Un delitto quasi perfetto nel cuore di Milano: il mistero della morte di Fermo Reverberi, settantottenne ex maggiore dei bersaglieri

Una morte all’apparenza naturale nascondeva un omicidio agghiacciante. Il corpo di un maggiore in pensione era già diretto verso le fiamme della cremazione, quando un intervento in extremis della polizia interruppe il suo ultimo viaggio. Ciò che ne seguì fu l’inizio di una trama oscura, fatta di legami proibiti e segreti inquietanti.

Era un delitto destinato a restare invisibile, uno di quelli che non lasciano tracce. E invece, il mistero della morte di Fermo Reverberi, settantottenne ex maggiore dei bersaglieri, si rivelò essere uno dei più torbidi casi di cronaca nera della Milano del 1969. Quella che all’inizio sembrava essere una morte per cause naturali si trasformò presto in una storia cupa, un intreccio di segreti famigliari e doppi giochi.
Tutto ebbe inizio il 18 novembre 1969, quando il corpo del Reverberi venne rinvenuto nel suo appartamento signorile di via San Salvatore, nel cuore di una Milano avvolta nella nebbia invernale. Ad allertare la polizia fu Elisa Del Zotto, la portinaia dello stabile. Preoccupata per l'assenza prolungata del suo anziano inquilino, decise di segnalare la situazione. Quando gli agenti giunsero nell’appartamento, trovarono il maggiore con il volto affondato su un cuscino. I medici diagnosticarono un collasso cardiocircolatorio: la morte sembrava risalire a qualche giorno prima, probabilmente alla notte tra il 14 e il 15 novembre. Tuttavia, ciò che poteva apparire come una fine naturale nascondeva risvolti ben più oscuri.

Immagine generata con AI

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Reverberi aveva due sorelle, Maria e Fernanda, residenti rispettivamente a Milano e a Vinovo, vicino Torino. Furono subito avvisate della sua morte. Tra le poche carte trovate nell'appartamento vi era un biglietto, firmato dal defunto, in cui egli chiedeva esplicitamente di essere cremato. Le due donne, sebbene turbate, avviarono le pratiche per assecondare l'ultimo desiderio del loro caro.
Il 20 novembre giunse l’autorizzazione per procedere alla cremazione, fissata al Cimitero Monumentale. La bara in zinco venne accompagnata dalle sorelle del defunto, le quali, troppo sconvolte, decisero di non assistere alla cerimonia. Tuttavia, proprio mentre la bara stava per essere introdotta nel forno, irruppe sul posto la polizia, ordinando di sospendere immediatamente tutto. Fu Pierino Introini, l'addetto alla cremazione, a ricordare per anni l’episodio, descrivendo come la salma, per un soffio, fosse stata risparmiata dalle fiamme. Grazie alla resistenza della cassa di zinco, il corpo rimase intatto, venendo successivamente trasportato all’obitorio.

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Le indagini avevano preso una piega inaspettata. Poco prima della cremazione, la polizia italiana aveva ricevuto un avviso dalla Svizzera: un pregiudicato italiano di nome Mario Chioditti, fermato a Lugano, era stato trovato in possesso di un porto d'armi intestato a Fermo Reverberi. Chioditti, trentenne originario di Pescara ed ex cassiere in un’agenzia viaggi di Lugano, era noto per i suoi traffici illegali di assegni e traveller's cheques falsi. Durante l'interrogatorio, Chioditti fece rivelazioni sconcertanti: l’uomo aveva una relazione con Laura Dodero Moroni Stampa, un'affermata docente di lettere italiane, appartenente all'alta società di Lugano. Ma soprattutto, la Dodero non era soltanto la sua amante; era anche nipote del defunto Reverberi, con il quale, secondo quanto emerso, intratteneva una relazione ben oltre i normali vincoli familiari.

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Nonostante fosse legata a Chioditti, Laura Dodero, 47 anni, era sposata con Luciano Moroni Stampa, un noto professore e paleologo luganese. Il suo matrimonio, apparentemente ineccepibile, non le aveva impedito di mantenere relazioni proibite con l’anziano zio. Tuttavia, la Dodero aveva trovato in Chioditti una via di fuga da una vita che reputava monotona. L'uomo, affamato di denaro, accettò con piacere il sostegno economico dell'amante, che non esitava a ricorrere alla fortuna dello zio per accontentarlo.

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La polizia, sospettando un complotto, dispose un’autopsia sul corpo di Reverberi. La perizia tossicologica rivelò tracce di un composto ipo-ossigenante di tipo morfinico mescolato ad alcol, capace di causare un collasso in una persona dalla salute cagionevole come quella dell'ex maggiore, affetto da asma. L’analisi confermò dunque che Reverberi non era morto per cause naturali: era stato assassinato. I sospetti si concentrarono inevitabilmente sulla coppia Dodero-Chioditti, già coinvolta in vari crimini contro il patrimonio.
La detenzione della Dodero in Svizzera durò poco: a causa di una crisi nervosa, venne trasferita in una struttura neuropsichiatrica di Mendrisio. Non fu mai chiarito se il trasferimento fosse dovuto a un tentativo di suicidio, ma non sarebbe stato il primo. Tre anni prima, infatti, la donna aveva tentato di togliersi la vita gettandosi dalla finestra della sua abitazione a Lugano. Il suo comportamento era noto a molti, e in città in molti la descrivevano come una figura complessa, tormentata da una cronica insoddisfazione, che spesso si vantava di amicizie altolocate inesistenti e viveva un’esistenza ritenuta da lei stessa “spenta e senza scopo”.

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Con un fascino ancora intatto e un’eleganza eccentrica, Laura Dodero continuava a vestirsi con abiti provocanti, nonostante l’età. Eppure, dietro quest’apparenza, conduceva una vita segreta: amante di uno zio ben più anziano e di un uomo molto più giovane di lei. Le indagini italiane giunsero presto a Milano, dove il sostituto procuratore Giovanni Caizzi emise un mandato di cattura per i due amanti.
Le deposizioni dei sospettati divennero un susseguirsi di accuse reciproche. La Dodero dichiarò che fu Chioditti a uccidere lo zio approfittando del suo stato di debolezza causato dal farmaco, mentre Chioditti sostenne che il collasso cardiaco del Reverberi si fosse verificato alla presenza della Dodero. Fu una delle sorelle del defunto, Fernanda, a indirizzare i sospetti degli investigatori verso un’ipotesi agghiacciante: la richiesta di cremazione era probabilmente solo una macchinazione ideata dalla coppia diabolica per distruggere le prove del crimine. Fernanda confermò che il fratello aveva espresso questa volontà solo a voce, e che l'unico biglietto scritto venne trovato per caso nella casa della vittima. Non era forse opera dei due amanti?
Nel 1972, il tribunale condannò Mario Chioditti a ventidue anni di carcere per omicidio, mentre Laura Dodero fu riconosciuta colpevole di complicità e condannata a undici anni. Il "delitto perfetto" fallì per pochi istanti: se la cremazione non fosse stata bloccata, della storia torbida e dolorosa di Laura Dodero e dei suoi amanti non sarebbe rimasta che cenere.
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