Cittadinanza, un referendum inutile che altro non è che una grandissima operazione di marketing politico: vogliono vincere facile

Domenica 8 e lunedì 9 giugno si vota anche per ridurre da 10 a 5 anni il requisito di residenza per chiedere la cittadinanza: ma la verità è che questo quesito non cambierà la vita di nessuno, se non dei partiti che lo sostengono

Tra i cinque referendum abrogativi in programma per l’8 e 9 giugno, ce n’è uno che rischia di passare inosservato ma che, a ben guardare, ha un obiettivo molto preciso: non garantire diritti nuovi a chi già vive in Italia, ma piuttosto portare alle urne milioni di potenziali nuovi elettori. Stiamo parlando del referendum sulla cittadinanza, quello che propone di modificare l’articolo 9 della legge 91 del 1992, riducendo da 10 a 5 gli anni di residenza legale e continuativa necessari per presentare la domanda di cittadinanza italiana.

Una misura che, se approvata, interesserebbe potenzialmente almeno 2,3 milioni di persone. Il motivo? Perché una volta acquisita la cittadinanza da parte di un genitore, questa verrebbe automaticamente estesa ai figli minorenni. È facile intuire chi ne trarrebbe il maggiore vantaggio elettorale, ed è per questo che il quesito è stato fortemente voluto dalla sinistra.

I MINORI HANNO GIÀ GLI STESSI DIRITTI DEGLI ALTRI

Il punto è che questo referendum è costruito su un presupposto fuorviante: l’idea che in Italia esista una sorta di discriminazione sistematica verso i minori stranieri. Ma così non è. Un bambino o ragazzo minorenne che risiede regolarmente in Italia gode, già oggi, degli stessi diritti fondamentali dei suoi coetanei italiani.

Frequentano la scuola dell’obbligo senza alcuna limitazione. Hanno accesso gratuito al sistema sanitario nazionale, compresi pediatri, vaccinazioni, visite specialistiche e cure ospedaliere. Possono partecipare alle attività sportive, sociali e culturali promosse da scuole, associazioni e Comuni. Pagano le stesse imposte e le stesse tasse dei coetanei italiani, o godono delle stesse esenzioni, come nel caso del trasporto pubblico o della mensa scolastica. E quando si tratta di reddito familiare, anche i minori stranieri sono pienamente inclusi nei meccanismi di sostegno economico come l’ISEE e l’Assegno Unico.

Allora, se i diritti fondamentali non sono in discussione, cosa cambierebbe davvero con questo referendum? Nulla, almeno per chi vive quotidianamente in Italia. Ma molto, invece, per l’equilibrio elettorale del Paese.

UN REFERENDUM CHE NASCONDE UN’OPERAZIONE POLITICA

Non è un caso che questa proposta arrivi proprio ora, in vista delle prossime tornate elettorali. La possibilità di far entrare nel corpo elettorale milioni di nuovi cittadini — nella stragrande maggioranza giovani, urbanizzati e, per tradizione, orientati verso sinistra — rappresenterebbe un vantaggio strategico enorme per chi oggi promuove questa riforma.

Certo, la cittadinanza non è solo una questione di diritti, ma anche di identità e partecipazione alla vita pubblica. Ma è lecito chiedersi: serve davvero una scorciatoia per ottenere questo traguardo? O sarebbe più giusto, invece, accompagnare questo processo con percorsi più graduali, in cui si confermano non solo i requisiti burocratici, ma anche una reale volontà di integrazione?

I TEMPI LUNGHI NON SI RISOLVONO CON UN REFERENDUM

C’è poi un altro aspetto da non sottovalutare: chi oggi ha diritto alla cittadinanza spesso si scontra con tempistiche lente e farraginose. È vero che i 10 anni richiesti dalla legge attuale sono solo il punto di partenza. In media, tra raccolta dei documenti, istruttoria e decisione, passano altri due o tre anni. Ma il problema non è la norma: è l’inefficienza della macchina burocratica. Ed è su questo che si dovrebbe intervenire, non sul numero degli anni di residenza.

Invece, si punta a cambiare la legge per far intestarsi l'inziativa e candidarsi a rappresentare i nuovi elettori politicamente. In realtà la sinistra sta solo preparando il terreno per un ampliamento elettorale.

LA CITTADINANZA NON È UN REGALO

Acquisire la cittadinanza di un Paese è un atto serio, che comporta diritti, ma anche doveri. È giusto che sia concessa a chi dimostra di conoscere la lingua, di integrarsi nel tessuto sociale e di rispettare le leggi. Non serve abbassare il livello di attenzione o accelerare i tempi per motivi politici. Serve, piuttosto, rispetto per ciò che la cittadinanza rappresenta: un patto tra Stato e cittadino, non un favore da concedere in cambio di un voto.

Per questo motivo, il referendum sulla cittadinanza appare inutile, e in parte anche strumentale. Non perché si voglia negare diritti a qualcuno, ma perché quei diritti sono già garantiti. E trasformare una questione così seria in un’operazione di marketing politico non fa bene a nessuno, se non a chi spera di portare a casa qualche milione di consensi in più. Vogliono vincere facile.
Giulio Carnevale