Referendum sul Jobs Act: una resa dei conti tutta interna alla sinistra italiana, ancora una volta non all'altezza di leggere la realtà

Dieci anni dopo l’approvazione, la CGIL e la sinistra riscoprono il Jobs Act. Ma la coerenza dov’era quando serviva?

Nel 2015 la CGIL non organizzò alcuno sciopero generale nazionale contro il Jobs Act

La chiamano partecipazione democratica, ma a guardarla bene sembra più una faida intestina. I quattro referendum abrogativi sul lavoro promossi dalla CGIL — con il sostegno più o meno convinto di una certa sinistra — sono il frutto avvelenato di una contraddizione lunga un decennio. Perché è bene dirlo subito: il Jobs Act non è stato imposto da chissà quale governo di destra. No, è una creatura orgogliosamente partorita dal Partito Democratico, allora guidato da Matteo Renzi, con la benedizione delle principali sigle sindacali che oggi lo rinnegano.

Si parla oggi, con toni drammatici, di ripristino dei diritti, di difesa del lavoro, di cancellazione delle “ingiustizie sociali”. Eppure, quando il Jobs Act venne approvato nel 2014, la sinistra di governo non solo lo difese, ma lo portò come fiore all’occhiello in Europa. Era il tempo delle slide e degli 80 euro, delle riforme strutturali e della modernizzazione del mercato del lavoro. Dove sono finiti oggi quegli entusiasti sostenitori?

La verità è che questi referendum — che vanno dalla reintroduzione dell’articolo 18 alla revisione dei contratti a termine e alle tutele crescenti — non sono altro che un tentativo di ripulirsi la coscienza. Ma lo fanno a spese della credibilità. È infatti curioso notare come chi oggi si strappa le vesti per difendere i diritti dei lavoratori, ieri non mosse un dito mentre si svuotavano le tutele storiche conquistate con decenni di battaglie.

l principale sciopero generale contro la riforma del lavoro voluta dal Governo Renzi fu indetto prima dell'approvazione definitiva del Jobs Act, precisamente il 12 dicembre 2014, ed era stato proclamato insieme alla UIL, ma senza la partecipazione della CISL.

Dopo l’approvazione della legge, avvenuta tra fine 2014 e inizio 2015, non ci furono scioperi generali della CGIL specificamente contro l'applicazione del Jobs Act durante l'anno 2015. La strategia sindacale si spostò su iniziative legali, ricorsi, manifestazioni locali e raccolta firme, ma non su scioperi nazionali massivi.

Questa assenza di mobilitazione nel momento in cui le norme venivano applicate è una delle principali incoerenze oggi evidenziate nel dibattito politico, anche in relazione all’attuale promozione dei referendum abrogativi da parte della stessa CGIL.

E allora sì, è giusto che vadano a votare solo quelli di sinistra. Perché questa è, a tutti gli effetti, una questione interna, una resa dei conti ideologica e politica fra le varie anime del progressismo italiano. Un referendum che puzza di autoassoluzione e riposizionamento, più che di giustizia sociale. Il centrodestra, da parte sua, ha già archiviato da tempo la stagione renziana e non ha bisogno di partecipare a un processo tutto sommato farsesco.

L'Italia ha ben altri problemi: una disoccupazione giovanile che non cala, un mercato del lavoro sempre più precario, la fuga di cervelli, e un Sud che arranca. Eppure la sinistra, invece di proporre soluzioni nuove, preferisce riscrivere il passato con l’inchiostro del pentimento tardivo. Senza contare che in dieci anni ha detto tutto e il contrario di tutto: prima l’abolizione dell’articolo 18 era necessaria per attrarre investimenti, oggi è la causa di tutte le disgrazie del lavoro italiano. Prima la flessibilità era una virtù, oggi è lo spauracchio da combattere. Prima la CGIL era “arcaica”, oggi è l’unico baluardo di giustizia. Siamo al grottesco.

Mentre la CGIL si erge oggi a paladina dei diritti dei lavoratori promuovendo ben quattro referendum per abrogare il Jobs Act, a maggio del 2023 ha firmato un contratto nazionale che ha fatto sollevare più di un sopracciglio, soprattutto tra gli stessi lavoratori. Si tratta del rinnovo del contratto per gli addetti alla vigilanza privata e ai servizi fiduciari, dove la retribuzione oraria stabilita per alcuni profili è di appena 5/6 euro all’ora. Successivamente, il 16 febbraio 2024, è stato firmato un nuovo accordo che ha apportato modifiche alla parte economica del contratto. Questo aggiornamento ha previsto aumenti retributivi per i lavoratori, portando la paga oraria del livello intermedio degli operatori di sicurezza a 7,50 euro e quella delle guardie giurate a 8,83 euro .Una cifra che stride fortemente con le battaglie di principio che il sindacato sta portando avanti a colpi di referendum. È legittimo allora chiedersi: quale coerenza c’è tra la narrazione pubblica di un sindacato che invoca “salari dignitosi” e la firma di un contratto che di dignitoso ha ben poco? Ancora una volta, il problema della sinistra sindacale italiana non è solo nelle idee, ma nella capacità (o volontà) di tradurle in scelte credibili e coerenti.

In questo teatrino dell'incoerenza, l'unica certezza è la disorientante ondivaghità di una certa sinistra italiana, incapace di leggere la realtà, di assumersi responsabilità storiche e, soprattutto, di essere all’altezza delle sfide di un mondo del lavoro in profonda trasformazione. Alla fine, anche il referendum rischia di diventare solo un esercizio sterile di narcisismo ideologico, che nulla cambierà per chi cerca un contratto stabile, un salario dignitoso o una prospettiva concreta.

E mentre loro si dividono tra "sì" e "no", tra "era giusto" e "è stato un errore", il Paese resta fermo. Anche per colpa loro.
Giulio Carnevale