Femminicidio

Ma le istituzioni si adoperano seriamente per realizzare la parità di genere?

L'opinione di Giancarlo Trigari

Femminicidio” è un termine giornalistico, ma non è ancora entrato a far parte del codice penale. Non esiste ancora una norma che punisca più severamente gli omicidi di genere, quelli compiuti da chi si dichiara così innamorato da non potersi rassegnare ad essere lasciato.

In generale invece può facilmente capitare che l'assassino possa contare sulla benevolenza di giudici che non contestano alcuna aggravante, anche nei casi più efferati. Lasciamo stare gli avvocati, che fanno il loro mestiere, ma sono spesso i giudici che mostrano comprensione per mostri a cui si attribuisce una travolgente storia d'amore.

In questa direzione è purtroppo orientata una lunga tradizione giudiziaria nata con il famigerato “delitto d'onore” che una volta infangava il nostro codice penale. Un uomo che ritenesse il comportamento della moglie lesivo del suo “onore” aveva in pratica la licenza di ucciderla.

Si trattava della ciliegina sulla torta di un bieco maschilismo che è ben difficile recuperare. Si può sperare di farlo solo con un lungo lavoro di educazione alla parità di genere a partire dalla scuola, cominciando fin dall'asilo nido. È molto dubbio che le istituzioni, tra cui includiamo al primo posto la famiglia, si stiano muovendo seriamente in questo senso.

Interrogato un ragazzino di dieci anni se del suo gruppo che partecipa ad un videogioco condiviso in internet facesse parte qualche “femmina”, la risposta è stata che non ce ne erano perché non sono capaci. L'età è quella che Sigmund Freud (1856 - 1939) colloca nel periodo di latenza che comincia intorno ai cinque anni, in cui manca quell'attrazione sessuale che si svilupperà al termine del periodo, dopo qualche anno, con la pubertà, ma in cui nasce la predisposizione alla discriminazione sessuale: da una parte i “maschi” sono indotti a pensare che le “femmine” non siano capaci di fare i giochi da “maschi”, mentre le “femmine” sono indotte a mostrare un totale disinteresse per i giochi da “maschi”. Queste categorizzazioni a queste età risultano decisive.

Questo non vuol dire che che le “femmine” e i “maschi” debbano risultare uguali, perché sia fisicamente che psichicamente non lo sono, ma che le scelte a tutte le età non debbano mai dipendere dagli stereotipi del genere di chi le opera.

Nel caso specifico si può essere assolutamente certi che le “femmine” siano capaci come e anche meglio di qualsiasi “maschio” di dedicarsi a qualsiasi videogioco. Semplicemente vengono indirizzate altrove. A questo proposito citerò un altro esempio, sempre collocato nella stessa fascia d'età. Un “maschio” riceve una play-station in regalo da una “femmina” che è passata al modello più recente. Lui dichiara che i primi tempi non ha potuto usarla molto perché ha dovuto cancellare le “robe da femmina” che c'erano su. Non ha detto, come eventualmente sarebbe stato corretto, che ha cancellato i giochi che non gli piacevano.

Entrambi gli esempi citati sono situazioni reali e, come si può dedurre dagli argomenti, molto recenti. Inoltre non siamo nel sud del mondo, ma nella grande Milano.

Possiamo aspettarci che anche quando crescono i “maschi” non considerino le “femmine” esseri inferiori e quindi, nei casi di minore autocontrollo, sottoposte al loro insindacabile giudizio di vita o di morte?