SPECIALE: “A scuola di inclusione”: a Cerro al Lambro un convegno fa riflettere sulla necessità di imparare a includere |Gallery|Video|

Cosa significa includere e quali sono le modalità per evitare l’esclusione, quali pratiche attuare per includere, quali sono i vantaggi e le criticità

A Scuola di inclusione

A Scuola di inclusione per imparare a non escludere

Si è tenuto sabato 12 maggio 2018 presso la sala “E. Ercoli” del centro civico “G. Puecher” di Cerro al Lambro il convegno “A scuola di inclusione”, promosso dalla cooperativa sociale il Melograno CBM Onlus e ASSEMI (Azienda Sociale Sud-Est Milano), al quale hanno partecipato – tra gli altri – per il Comune di Cerro al Lambro il sindaco Marco Sassi, il vicesindaco Andrea Pellegrini e l’assessore alle Politiche Scolastiche Paola Ferrari; per ASSEMI il presidente del CdA Domenico Francesco Lollo e il direttore Cristina Gallione; per la cooperativa Il Melograno CBM il direttore generale Dario Colombo, il coordinatore dei servizi Marco Chiapella e il presidente della cooperativa Matteo Maria Tamburri. Il convegno ha visto inoltre diversi relatori alternarsi nei due tavoli di lavoro che si sono svolti durante la mattinata. Presenti inoltre numerosi docenti – tra cui il dirigente scolastico dell’istituto comprensivo “Paolo Frisi” di Melegnano dottoressa Giordana Mercuriali – formatori, educatori, assistenti sociali e genitori.
Gli aspetti fondamentali emersi dal primo tavolo di lavoro sono stati molteplici e hanno dato la possibilità di porre alcune domande e fare interessanti riflessioni.

In primo luogo, cosa si intende per inclusione?

Secondo la professoressa Cristina Palmieri, docente di Pedagogia dell’inclusione sociale all’università Milano Bicocca: «Si tratta di un processo graduale che riconosce e valorizza le caratteristiche differenti di ciascuno attraverso la modificazione degli ambienti di vita, di lavoro, educativi e scolastici. L’inclusione non è niente di naturale, occorre pertanto comprendere attraverso quali elementi si impara a includere o, al contrario, a escludere».

Ma quali sono i dati sulla disabilità in Italia?

Ma quali sono i dati sulla disabilità in Italia? Quali le criticità che permangono nonostante l’intervento educativo? «Ci sono 4 milioni di persone con disabilità sul territorio italiano e, di questi, circa 2 milioni con disabilità grave. In ambito scolastico il 64% degli alunni con disabilità è di sesso maschile e circa l’80% delle diagnosi sui bambini riguarda disturbi dell’attenzione e dell’apprendimento o disabilità intellettiva» racconta Marco Chiapella, presentando uno studio sulla disabilità (di cui riportiamo le slide), «gli interventi educativi hanno in generale avuto effetti positivi ma permangono alcune difficoltà come il venir meno delle relazioni significative costruite nel periodo scolastico e la problematicità per le persone con disabilità a costruirne di nuove e il permanere di ostacoli a un inserimento lavorativo duraturo, per cui è necessario creare opportunità di impiego anche attraverso attività professionalizzanti durante la scuola – come corsi di cucina, informatica o meccanica – e di accompagnamento individuando imprese del territorio con cui attivare sinergie»

Ma, allora, quali sono le situazioni per cui educatori e assistenti sociali devono intervenire?

«Sono situazioni di disagio, attribuibile alla persona in sé o a chi vive e opera con essa; vissute nell’ottica dell’emergenza, per cui evidenziano dei bisogni a cui rispondere in modo immediato; che sono percepite come a rischio di emarginazione, sia che siano croniche – come la disabilità – sia prodotte da un determinato clima sociale e culturale. Gli educatori possono quindi intervenire su questi modelli di apprendimento che coinvolgono sia le persone portatrici di disabilità sia quelle che con esse si relazionano perché se gli individui “imparano” a sentirsi a disagio allora possono anche imparare a sentirsi in un altro modo».

Quali sono, dunque, le condizioni su cui lavorare?

«È necessario fare esperienze che permettano di decostruire convinzioni e atteggiamenti affinché le persone portatrici di un disagio imparino a pensarsi diversamente e a vivere la disabilità come una caratteristica personale che, però, rappresenta solo una parte della loro vita; senza per questo sentirsi escluse o incapaci. È importante considerare e valorizzare queste caratteristiche per far sì che le persone abbiano con i propri limiti un rapporto di convivenza e di possibilità, senza negarli».

Cosa devono fare gli educatori?

«Anzitutto devono capire con quale modalità hanno essi stessi interiorizzato il modo di pensare alle persone con cui lavorano, perché se il riferimento è quello di un modello con determinate caratteristiche – che rappresenta la “normalità” a cui assomigliare – allora gli educatori non svolgono il loro compito di valorizzazione delle differenze perché, di fatto, quella “norma” non esiste ma si tratta di modelli, estremamente diffusi nella cultura occidentale, molto centrati sulla performance, sulla forma fisica (non sulla salute, attenzione) e sulla capacità di superare i propri limiti che divulgano schemi di esclusione» in cui la “normalità” è mediata da criteri che stanno in un rapporto di dominio/subordinazione «che, poi, diventano stili di vita influenzando moltissime persone. La società, infatti, oggi tende a epurare le situazioni di tutti quegli elementi che fatica ad accettare, come ad esempio l’invecchiamento o la malattia. Gli educatori devono perciò sviluppare competenze di tipo interpretativo e strategico per comprendere le diverse situazioni e modificare le percezioni diffuse nelle comunità (genitoriali, territoriali, ecc.)».

Un esempio pratico si ritrova nello sport: il baskin, ad esempio, modificando le regole del basket classico e l’ambiente di gioco, consente di includere contemporaneamente nel gioco persone disabili e normodotate, donne e uomini, giovani e anziani. Dunque l’importanza del ruolo degli educatori sta nella loro capacità di aiutare i portatori di disabilità a esplicitare le proprie aspettative e i propri desideri, facendo da mediatori tra disabili, genitori e servizio sociale professionale considerando tutta la rete di relazioni che ruota intorno alle persone disabili. La collaborazione poi con gli assistenti sociali, che assumono invece ruolo di ponte tra vita in età scolare e vita adulta, porta a costruire progetti specifici per le persone con disabilità che vanno oltre la scuola.

Quale ruolo deve avere la scuola per far sì che ci sia davvero inclusione?

Fondamentale diventa l’alternanza scuola-lavoro, perché consente di coinvolgere non soltanto gli alunni e gli educatori, ma anche le famiglie e il territorio dal momento che per avviare questo tipo di progetti la scuola deve aprirsi al territorio e confrontarsi con gli enti, le aziende, i genitori con una ricaduta a pioggia su tutto il contesto scolastico e il corpo docente che si ritrova ad andare oltre il proprio ruolo o la materia di insegnamento specifica. Esempi pratici in ambito scolastico su come sia possibile costruire progetti di inclusione sono quelli riportati dalla professoressa Cecilia Severgnini, docente dell’Istituto superiore “Vincenzo Benini” di Melegnano, e dalla dottoressa Emanuela Zappella, del Dipartimento di Scienze umane e sociali dell’università di Bergamo: nel primo caso si tratta di «un protocollo istituito dalla scuola, che fa seguito a quello di accoglienza, che prevede quattro tipologie di alternanza scuola-lavoro con progetti interni o esterni all’istituto per rispondere a tutte le esigenze degli alunni; partendo dal PEI (Piano Educativo Individualizzato, cioè il documento redatto annualmente per gli alunni con bisogni educativi speciali) come indicatore per trovare il contesto lavorativo più idoneo alle caratteristiche e capacità di ogni singolo allievo. L’obiettivo è far comprendere agli alunni che dopo la scuola c’è un mondo in cui possono inserirsi senza aver paura perché la scuola fa da ponte fra un contesto protetto come quello della scuola e un contesto nuovo in cui vengono meno i punti di riferimento». Nel secondo caso «partendo da una passione è possibile sperimentare prima un’attività lavorativa in una situazione protetta – con l’affiancamento dell’educatore – per passare poi a un percorso in un contesto più complesso. Trovato il contesto idoneo, infatti, la persona con disabilità ha dimostrato di poter lavorare in completa autonomia e di essere un valore aggiunto per la realtà professionale in cui è stata inserita». La dottoressa Zappella ha evidenziato anche un altro aspetto importante: le criticità emerse nel percorso non riguardano solo i ragazzi e le ragazze con disabilità, ma anche le persone che si trovano ad affiancarli, perché spesso si manifestano delle resistenze e delle paure da parte dei datori di lavoro a lasciare loro autonomia in ambito lavorativo.

Quindi la scuola deve anzitutto occuparsi di costruire per queste persone dei legami con tutta la comunità e sensibilizzare i cittadini sul territorio per poter poi creare un clima di fiducia, modificando il contesto e definendo i ruoli in modo partecipativo, che valorizzi le potenzialità di ciascuno. Infine deve impegnarsi a documentare e diffondere le buone pratiche di inclusione per mostrare come realizzare esempi di progetti inclusivi. La scuola ha davvero una valenza educativa nel momento in cui fornisce oggi alle persone con disabilità gli strumenti per poter agire una volta terminato il percorso scolastico; in questo senso va inteso il “dopo di noi”. 
Il secondo tavolo di lavoro è invece stata una vera e propria scoperta di esempi di buone pratiche presenti sul territorio.

Cooperativa sociale Il Germoglio - Progetto "Ti ospito a casa mia"

A partire da Roberto Guzzi, della cooperativa sociale Il Germoglio, che ha presentato il progetto sperimentale “Ti ospito a casa mia” in cui – attraverso diverse iniziative che hanno coinvolto cooperativa, Comune di Cassina De’Pecchi e territorio – è stato recuperato un appartamento a protezione leggera in cui vengono ospitate diverse persone con disabilità affiancate da assistenti familiari.

Cooperativa sociale Il Melograno CBM Onlus - Progetto "APP - appartamenti per l'autonomia"

Alessia Serafini della cooperativa sociale Il Melograno e coordinatrice del progetto “APP – appartamenti per l’autonomia” per nuclei mamma-bambino ha esposto un progetto che «partendo da un disagio relazionale, simile al disagio che provoca la disabilità – perché entrambi sono fenomeni di etichettamento sociale ed emarginazione – prevede l’accoglienza di mamme con bambini e cerca di coniugare le esigenze di due soggetti con bisogni diversi per arrivare alla definizione di un progetto familiare che risponda ai bisogni di entrambi».

Associazione PizzaAut

Nico Acampora, presidente dell’associazione PizzaAut ha spiegato come è nata l’idea di creare un laboratorio di inclusione sociale, autonomia di vita e lavorativa per i ragazzi autistici partendo da una amara riflessione: «I ragazzi autistici, a differenza degli altri portatori di disabilità, non hanno alcuna tutela. Mentre per gli altri al compimento del diciottesimo anno di età viene riconosciuta l’invalidità al 100% e una pensione, per i ragazzi con autismo lo Stato non prevede quasi nulla. È come se compiuti i 18 anni smettessero di essere autistici e, paradossalmente, vengono meno anche quelle poche tutele – cioè le attività di psicomotricità e di logopedia – che hanno finché sono minorenni. Perciò come genitori abbiamo deciso di costruire le condizioni giuste perché i nostri figli possano avere un “dopo di noi” uguale a quello di tutti gli altri». Riscontrando in Italia la mancanza di situazioni di ristorazione legate all’autismo, hanno quindi messo a punto dei percorsi formativi specifici sul fare la pizza «perché questa attività ha dei processi di preparazione difficili ma facilmente standardizzabili e abbiamo ottenuto grandi risultati perché i ragazzi hanno mostrato una cura particolare nello svolgimento delle attività e dei vari processi sviluppando un senso di grande autoefficacia ma anche capacità “imitative” delle azioni degli altri senza aver bisogno dei diari visivi». Andando oltre tutte le discussioni tra gli “addetti ai lavori” e contro le rimostranze degli “esperti di autismo”, hanno mostrato all’Italia la realtà dell’autismo presentandosi al talent showTu si que vales” e partecipando al “Campionato mondiale della Pizza”, una competizione con 700 pizzaioli, in cui uno dei ragazzi di PizzaAut si è classificato trentacinquesimo. «L’unica difficoltà riscontrata – spiega Acampora – riguarda la presa degli ordini, perciò ci siamo rivolti alla Samsung che ha inventato la app “PizzaAut” con cui, attraverso l’uso dei tablet, i ragazzi hanno imparato a prendere gli ordini in modo corretto diventando dei perfetti camerieri».

Cooperativa Risorsapiù Onlus - Progetto "Oikia"

Infine Laura Cereda, responsabile servizi della cooperativa Risorsapiù Onlus ha parlato del progetto di co-housing “Oikia” per persone con disabilità su territorio di San Donato Milanese, il quale prevede la co-abitazione tra persone normodotate e persone disabili. «Progetto “Oikia” si propone di supportare le persone accolte nel costruire una nuova rete di relazioni accompagnandole inizialmente a 360° gradi sul territorio, per arrivare a far sì che nel tempo possano cavarsela da sole. Allo stesso tempo abbiamo mostrato alle persone sul territorio come rapportarsi con i disabili e abbiamo scoperto che non solo le persone normodotate hanno imparato a relazionarsi con loro anche sulle criticità, ma che spesso sono proprio loro a vedere caratteristiche e risorse di questi ragazzi e ragazze».
Tutti questi esempi hanno sottolineato alcuni fattori sostanziali da tenere in considerazione se si vuole realmente fare inclusione: in primis il rischio, per le persone con disabilità, di una banalizzazione delle relazioni perché – come ha spiegato Igor Salomone, formatore e consulente pedagogico e membro del comitato scientifico de Il Melograno – «mentre le persone normodotate passano da una situazione di “dipendenza” dai genitori a una graduale autonomia, quelle con disabilità hanno una rete di relazioni più fitta durante il periodo scolastico ma questo le porta, paradossalmente, ad avere maggior dipendenza da poche persone – familiari, educatori, ecc. – e a mantenere una rete di relazioni limitata e ingabbiante che riduce di fatto sempre più la loro autonomia». Perciò, se da un lato è importante «insegnare alle persone il farsi aiutare in una modalità non passivizzante, creando situazioni e contesti che permettano di imparare a scegliere da chi, come e quando farsi aiutare in modo attivo, sperimentando altri ruoli oltre a quello di “portatori di un bisogno”» dall’altro è altrettanto imprescindibile una «decostruzione “dell’idea diffusa di futuro” radicata nella società, per cui per avere un futuro occorre potersi costruire una famiglia, avere un lavoro e una casa o diventare persone di successo. Superando i concetti prestabiliti il futuro diventa pensabile anche per le persone disabili».

Per imparare a fare inclusione occorre dunque «un profondo lavoro culturale che vada a modificare le concezioni oggi prevalenti figlie del modello economico in cui viviamo, nel quale i concetti di individualismo e competitività sono esasperati» afferma Matteo Maria Tamburri, presidente de Il Melograno CBM; in questo senso la decostruzione diventa una grande occasione non solo per le persone che hanno una disabilità perché permette di comprendere i vantaggi dell’inclusione anche per chi include e arrivare a un «welfare dei diritti e delle libertà delle persone con disabilità» ha concluso Cristina Gallione, direttore di ASSEMI.
Elisa Barchetta

"A scuola di inclusione": saluti istituzionali

PizzaAut a Tu si que vales

"A scuola di inclusione": slide

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La Cooperativa Germoglio