La guerra del soldato Giuseppe Vighi

Un ex milite, oggi residente a Melegnano, racconta la ritirata delle truppe italiane dalla Russia nel 1942


 
Caporal maggiore Giuseppe Vighi, partito per il Don, con il novantesimo Reggimento Fanteria, Divisione Cosseria, sul fronte russo, nell’inverno del 1942-1943. Della sua compagnia, sono tornati in quattordici: nella ritirata, il freddo uccise tanti soldati italiani. Tanto che c’era l’ordine di non fermarsi: «Io ho sempre camminato. Nelle scarpe avevo le pezze. Ne avevo quattro o cinque, perché le avevo lavate pochi giorni prima della ritirata», racconta il signor Vighi, con memoria pronta. «Porto il 40 di scarpe, avevo chiesto il 42 per imbottire i piedi. C’erano -14 gradi, il giorno; la notte, -40». Oggi ha 90 anni, due figli, quattro nipoti, tre pronipoti e tanti ricordi. Li vede ancora, ne parla con sguardo sorridente e di persona risolta. «Le isbe, le case dei contadini, erano distanti anche 20 chilometri l’una dall’altra. Chiedevamo ospitalità, scambiavamo una scatoletta di carne per una minestra di miglio, cucinata dai contadini ucraini. I tedeschi erano malvisti ed erano violenti. Ma noi italiani abbiamo più o meno lo stesso carattere di quel popolo dell'Est», continua il signor Vighi. Oggi, ad aiutarlo in casa, è una signora ucraina. «Là c’è ancora miseria, fanno ancora un po’ di fame. In quegli anni c’era lavoro per tutti, ma solo i funzionari erano ben pagati, che sono i capoccia di adesso. Tra i contadini, la maggior parte era contenta, ma tanti si lamentavano. Ogni famiglia doveva portare metà delle sue galline allo starota, il sindaco». Chiediamo a Giuseppe Vighi quale fu il giorno in cui arrivò al fronte. «Il 13 luglio 1942. Il 26 abbiamo iniziato l’avanzata. Eravamo di rincalzo, in prima linea c’erano aviotrasportati e carri armati. Raccoglievamo i prigionieri sul campo di battaglia. Non abbiamo mai fatto del male a nessuno. Sempre sul Don, prima dove era largo come il Lambro, a Melegnano, poi, trasferiti dove era largo un chilometro. La ritirata è iniziata il 10 dicembre. Prima, ci avevano mandati all’assalto quattro volte. Ho perso un amico, in quegli assalti. Glielo dicevo: “Caletti, non correre, perché qui non si capisce niente”. Gli ufficiali della mia compagnia infatti andavano tutti fucilati. Il nostro colonnello è stato sostituito, perché era un incompetente, dal maggiore Milino, poi divenuto generale. La mia compagnia è stata mandata all’assalto dal tenente Agosti, detto Testabianca, come pecore. L’ultima volta l’ho visto in piedi, senza elmetto, che diceva: “Non fate come le pecore, allargatevi sulla destra”. Poi non l’ho visto più. Colpito. Il problema è che nessuno diede l’allarme, quando arrivarono i russi. I nostri ufficiali dormivano tutti». Poi, l’annuncio della ritirata, la fuga in un rifugio, la prigionia e ancora la fuga. Trenta chilometri al giorno. Voronez, Belgorod, Harkov, Kiev e la Russia Bianca, Brest e Varsavia. Da lì, il treno. Vienna. Milano. Infine, Melegnano. E su 7giorni, oggi, a raccontare una pagina di storia.
Marco Maccari