Il farmaco generico è efficace?

Nel 2013 i farmaci equivalenti hanno rappresentato solo il 19% in consumi del mercato farmaceutico italiano, l'80% in Germania

Farmaci "equivalenti" non "generici"

Il farmaco generico è efficace come gli altri?
Molti italiani sono convinti di no.
Come è maturata questa convinzione?
Alcuni sostengono che il marchio di inefficacia provenga dallo stesso nome: “generico”. Si tratta di un termine dequalificante che richiama immediatamente alla mente il suo contrario: “specialistico”, e quindi l'idea che il “farmaco generico” sia una sorta di placebo, qualcosa che cura si, cura no, riservato ai meno abbienti che non possono spendere per curarsi.
Ma è veramente così?
Un principio attivo nella cura di qualsiasi patologia oggi nasce nei laboratori delle grandi case farmaceutiche che possono permettersi ingenti investimenti nella ricerca. Lo fanno, come è giusto che sia, perché si aspettano di recuperare i loro investimenti una volta che il principio attivo sia diventato un farmaco. Si tratta di una strada lunga e che non sempre si conclude positivamente, proprio perché impatta sulla salute umana, cioè il bene più prezioso che le autorità sono chiamate a tutelare.
La comunità riconosce l'impegno finanziario delle aziende farmaceutiche che fanno e finanziano la ricerca e garantisce loro un brevetto esclusivo della durata di dieci anni. Dopo questo periodo anche le aziende che non lo hanno brevettato possono produrre e commercializzare un principio attivo, come medicinale di nome diverso da quello brevettato (che è quello chiamato convenzionalmente “di marca”), vendendolo ad un prezzo inferiore per ovvi motivi di minori costi sostenuti. Chi detiene il brevetto può decidere se allineare il prezzo del farmaco di marca o lasciarlo invariato. Questo non deve stupire perché il detentore del brevetto può essere chiamato in ogni momento a sostenere altri costi per garantire l'efficacia e la sicurezza del principio attivo.
Per questa ragione la Fondazione GIMBE (Gruppo Italiano per la Medicina Basata sulle Evidenze) raccomanda di chiamare sempre il medicinale non coperto da brevetto “farmaco equivalente” perché contiene esattamente lo stesso principio attivo del farmaco di marca, e ha esattamente la stessa efficacia di quest'ultimo.
Spesso il principio attivo viene prodotto da un terzo che alla scadenza del brevetto lo fornisce a tutte le aziende farmaceutiche, che vi aggiungono gli eccipienti (composti che lo rendono fruibile), lo confezionano e lo distribuiscono con il proprio marchio. 
Cinque dei dieci maggiori produttori mondiali di equivalenti sono anche aziende che producono farmaci di marca. 
Il farmaco ha esattamente la stessa efficacia perché in tutti i casi è sottoposto ad una procedura di registrazione, agli stessi controlli e alla stessa vigilanza. Nessuno può ragionevolmente pensare che sia istituzionalizzato il principio che il farmaco che costa un 20% meno (tanto è il risparmio medio per l'acquisto di un equivalente) per questo motivo sia soggetto a minori controlli. 
Al contrario il medicinale equivalente può contare sulle comprovate evidenze di sperimentazioni e di utilizzo per almeno dieci anni del farmaco di marca, che gli garantiscono un profilo rischio/beneficio molto più definito di qualunque nuovo farmaco. 
La convinzione che il farmaco equivalente sia meno efficace è quindi solo un catastrofico pregiudizio.
È catastrofico perché provoca in Italia un drammatico sotto-utilizzo dei farmaci equivalenti, con maggiori costi per i pazienti e per la comunità.
Nel 2013 i farmaci equivalenti hanno rappresentato solo il 19% in consumi del mercato farmaceutico italiano, contro una media OCSE del 48%, e solo l'11% della spesa contro la media OCSE del 24%.
Nello stesso periodo nella ricca Germania il consumo di farmaci equivalenti è stato dell'80% e la spesa del 37%!
La normativa italiana oltretutto non incentiva l'utilizzo dell'equivalente. 
Il medico indica nella ricetta il principio attivo, ma può indicare un farmaco specifico con la dicitura “non sostituibile”, giustificando questa scelta. Il farmacista deve sempre informare il paziente dell'esistenza di un equivalente meno costoso. È il paziente che è chiamato a scegliere, e se sceglie il farmaco di marca paga la differenza rispetto all'equivalente rimborsato dal SSN. 
In questo percorso tortuoso si annidano evidenti conflitti di interesse.
Sicuramente i risultati sono clamorosi: l'OsMed (Osservatorio nazionale sull'impiego dei Medicinali) ha rilevato che il 72% della spesa per i farmaci a brevetto scaduto è stata assorbita nel 2015 in Italia da farmaci di marca, con notevoli differenze regionali che assegnano al centro-sud la consueta maglia nera. 
Cioè solo un 18% di cittadini ha approfittato della opportunità di curarsi esattamente nella stessa maniera senza spendere, pronta cassa, i propri soldi! 
Gli altri hanno pagato di tasca propria la differenza non rimborsata, con un esborso che nel 2015 è stato di oltre 1 miliardo di euro e nei primi 5 mesi del 2016 di 437 milioni di euro, in aumento del 2,6% rispetto allo stesso periodo del 2015.
Sempre secondo OsMed da un lato la riduzione dei consumi di farmaci in classe C con ricetta (quelli totalmente a carico del paziente), testimonia che i cittadini sono in difficoltà a sostenere la spesa dei farmaci a proprio carico, dall'altra per l'acquisto su prescrizione di farmaci in classe A, (totalmente a carico del SSN) i cittadini, se il trend attuale sarà confermato, si apprestano a regalare nel 2016 quasi 1 miliardo e mezzo di euro alle case farmaceutiche, non utilizzando i farmaci equivalenti che hanno lo stesso potere curativo. 
Da questi conteggi sono esclusi i ticket. Senza contare poi che tutti con le tasse sono chiamati a sostenere i costi del SSN e quindi a pagare la quota corrispondente agli equivalenti.
Questo dimostra chiaramente quale rapporto distorto i cittadini hanno con il Servizio Sanitario Nazionale, che poi spesso e volentieri accusano di dissipare risorse.
Da aggiungere che l'uso dei farmaci di marca di maggior costo, al posto degli equivalenti, è uno dei motivi che spinge frequentemente ad abbandonare la terapia, o anche a non seguirla regolarmente, nel caso di malattie croniche. La conseguenza è un inevitabile aggravarsi della patologia che determina una crescita dei costi di cura a carico della comunità, oltre al peggioramento dello stato di salute del malato.
In conclusione occorre cercare di superare ingiustificati pregiudizi e avere sempre l'accortezza di pretendere il farmaco equivalente, anche quando il farmacista ha l'aria di proporlo con riluttanza. Quello che risparmiate (fra tutti, quasi 1 miliardo e mezzo di euro) lo potete spendere in maniera più intelligente, se proprio vi avanza!
Giancarlo Trigari