Saronio, la storia della fabbrica del Duce: cosa si produceva negli stabilimenti di Melegnano e Riozzo?

Chimica Saronio, un secolo, tra luci, molte ombre e segreti militari. Seconda parte

L'Industria Chimica dr. Saronio a Riozzo

L'Industria Chimica dr. Saronio a Riozzo visuale da via della Libertà (immagine d'archivio)

Inchiesta di Elisa Barchetta

Il problema del reale inquinamento prodotto dall'Industria Chimica dr. Saronio e della nocività del lavoro al suo interno emerge soltanto a fabbrica ormai chiusa, ma è del 1946 un primo atto relativo agli scarichi industriali nel quale la Chimica chiede al Comune di Melegnano l’autorizzazione per realizzare un nuovo scarico di acque acide provenienti dallo stabilimento con un condotto in gres lungo la strada Melegnano-Carpiano a due metri di profondità. Il permesso viene accordato dal Comune, con alcune prescrizioni che però riguardano solo la regolamentazione del traffico a causa dei lavori e il ripristino del manto stradale a lavori ultimati, mentre non viene fatto alcun accenno per quanto riguarda la destinazione dello scarico stesso. Tra il 1947 e il 1949, inoltre, ha luogo una fitta corrispondenza tra la Prefettura di Milano, la Camera di commercio Industria e Agricoltura di Milano, il Genio Civile, il Comune di Melegnano e l’Industria Chimica Saronio, che ha per oggetto lo scarico non autorizzato dei rifiuti di lavorazione provenienti dallo stabilimento nelle acque del fiume Lambro. Risale a quegli anni infatti la prima denuncia di inquinamento nei confronti dell’Industria Chimica, proveniente dal Consorzio lombardo per la Tutela della Pesca, dietro sollecito dei pescatori della zona che da tempo lamentavano fenomeni quali moria di pesci o, come ha raccontato uno dei pochi ex dipendenti dell’Industria Chimica che 7giorni è riuscito a intervistare, «i pescatori di Sant'Angelo si accorgevano che quando andavano a pescare trovavano dei pesci con le teste deformi». Saronio però, in quegli anni, si era trincerato dietro il fatto che le produzioni della sua Industria Chimica interessavano gli armamenti. Quindi nel 1947 la Prefettura di Milano, rilevando che a due anni dalla fine della Seconda guerra mondiale l’Industria Chimica non aveva preso alcun provvedimento per evitare l’inquinamento delle acque, invita l’azienda a chiedere l’autorizzazione prefettizia per poter scaricare i residui industriali in acque pubbliche (secondo quanto previsto dall'ex art. 9 del Testo Unico Legge sulla Pesca n°1604/31) specificando che tale domanda «dovrà essere corredata da una relazione tecnica descrittiva di tutti gli impianti e dei cicli di lavorazione oltre che da una planimetria che dia una chiara visione della circolazione delle acque». A questo invito Saronio risponde che lo scarico nelle acque nel Lambro «è stato dalle superiori Autorità regolarmente autorizzato già da parecchi anni e che le fosse di decantazione furono costruite su progetto dell'Ing. Ferruccio Signori, approvato dal Genio Civile di Milano (Ing.Crippa). I continui bombardamenti che il ponte ferroviario, in prossimità delle fosse di decantazione, ha subito durante la guerra hanno forzatamente fatto sospendere i lavori di manutenzione, ed i detriti accumulatisi appunto a causa di detti bombardamenti, hanno reso meno efficiente l’impianto di decantazione. Ciò non pertanto la nostra ditta ha da tempo iniziato le opere necessarie a ripristinare l’impianto stesso onde rimetterlo nel più breve tempo possibile nelle condizioni fissate dal disciplinare depositato presso il Genio Civile di Milano». Il Comune di Melegnano però sollecita il dottor Saronio a esibire l’autorizzazione della Prefettura di Milano per lo scarico delle acque nel fiume Lambro, sollecito al quale Saronio risponde dichiarando che la stessa è depositata presso il Genio Civile. Quest’ultimo, da parte sua, dichiara di aver ordinato già nel 1937 all'Industria Chimica di effettuare alcune opere di decantazione e chiarificazione dei rifiuti provenienti dallo stabilimento ma di ignorare se tali opere (ultimate nel 1940) siano mai state collaudate dal competente Stabilimento Ittiogenico di Brescia. In pochi mesi risulta evidente che nessuna autorizzazione di scarico è stata mai concessa dalla Prefettura all'Industria Chimica e che l’azienda non ha rispettato le prescrizioni dello Stabilimento Ittiogenico. A metà del 1949, sollecitata nuovamente dal Comune di Melegnano a presentare gli atti di autorizzazione richiesti, l’Industria Chimica dichiara di averli smarriti.Anche a Foggia la situazione non è migliore. Infatti fin dal 1948 il prefetto della città aveva chiesto che il personale della fabbrica fosse utilizzato per bonificare l’area dell’Industria Chimica ma il Ministero della Difesa non aveva accolto la proposta dal momento che gli operai impiegati nella Chimica non erano pratici nel maneggiare sostanze tossiche e l’operazione risultava quindi pericolosa, come emerge dalla corrispondenza conservata presso l’Archivio di Stato di Foggia (Archivio di Stato di Foggia, Fondo Prefettura, Gabinetto, busta 41, cat. N. fasc. 1/6).
La risposta del Ministero del Lavoro

La risposta del Ministero del Lavoro al prefetto di Foggia per l'impiego degli operai nella fase di bonifica (Archivio di Stato di Foggia, Fondo Prefettura, Gabinetto, busta 41, cat. N. fasc. 1/6)

La risposta del Ministero della Difesa

La risposta del Ministero della Difesa al prefetto di Foggia per l'impiego degli operai nella fase di bonifica (Archivio di Stato di Foggia, Fondo Prefettura, Gabinetto, busta 41, cat. N. fasc. 1/6)

«Saronio rilevò dallo Stato a bassissimo prezzo enormi quantità di nitro-naftalina, esplosivo ...»

Per quanto concerne i prodotti e i processi produttivi dell’Industria Chimica dr. Saronio, le principali fonti di informazione sono una monografia dal titolo “Saronio” – nel capitolo “Una fabbrica autarchica” a cura di Ambrogio Casalino – ripresa anche nel libro “Le grandi fabbriche a Melegnano” voluto appunto dal Comune di Melegnano, l’“Indagine chimico-analitica ed idrogeologica sulla discarica della ex Industria Chimica Saronio” a cura del Consorzio Sanitario di Zona (a firma congiunta Csz, Smal e Ufficiale sanitario di Melegnano) del 22 novembre 1978 e conservata nell'Archivio dell’Ufficio tecnico del Comune di Melegnano e le testimonianze dirette rilasciate a 7Giorni dagli ex dipendenti della fabbrica. Come si può leggere nelle pagine della monografia su Saronio: «Si trattava di mettersi in concorrenza con l’industria tedesca, il suo prodotto base era il “nero diamante PV”, che veniva ottenuto dalla naftalina attraverso solfonazione e successiva sostituzione, per dare la diossinaftalina. [...] Saronio rilevò dallo Stato a bassissimo prezzo enormi quantità di nitro-naftalina, esplosivo secondario rimasto tra i residuati bellici; e si mise con me e altri chimici a ricercare il modo di utilizzare quel materiale. Dopo mesi di ricerche, passando attraverso la diamminonaftalina e quindi idrolizzando questa, trasformammo la dinitronaftalina in diossinaftalina, ottenendo un prodotto altrettanto pregiato e molto meno costoso di quello usato dalle ditte tedesche per la produzione del nero diamante. [...] L’industria italiana offriva solo benzolo, naftalina, e alcuni acidi inorganici. Da quei due composti si doveva quindi ricostruire l’intera gamma dei prodotti necessari alla preparazione degli azoici. Astretti da questa necessità studiammo e costruimmo gli impianti per la produzione degli intermedi: anilina, diossinaftalina, clorobenzolo, nitrobenzolo, nitrotolnolo, dinitroclorobenzolo, acido H, benzitina, tolnitina, naftilamina, acido salicilico, sale R, sale G, betanaftolo, naftolo AS, soda elettrolitica, acido solforico e oleum, anidride ftalica, per un totale di 19 impianti [...]. Stabilita la necessità di mettere in funzione l’impianto la sua realizzazione (tranne che per alcuni: acido solforico, soda, cloro) era affidata esclusivamente alle nostre capacità. La fonte più importante di informazioni erano i brevetti quasi sempre tedeschi nei quali i processi venivano descritti nel modo più oscuro possibile appunto perché non potessero venire riprodotti. Una volta ottenuto il prodotto in laboratorio, cominciava la fase più delicata: il trasporto e il processo su scala industriale. I chimici del laboratorio che si occupavano di questa fase venivano affiancati da un ingegnere ed erano con questo progettisti di macchine, perché nessun costruttore di macchine industriali si occupava del nostro settore. Bisognava dunque che noi stessi determinassimo la forma ottimale della caldaia e studiassimo il meccanismo degli agitatori, dalla forma e dalla struttura fino ai riduttori e ad altre parti propriamente meccaniche. Affidavamo quindi l’esecuzione dei pezzi a degli artigiani. Così non riuscimmo per molti anni a trovare sul mercato le pompe che ci occorrevano e dovemmo contribuire a studiarle. Così dovevamo determinare noi la disposizione dei macchinari e dei mezzi per trasportare dall'uno all'altro le varie sostanze. Soltanto per quanto riguardava le leghe metalliche resistenti al calore o anticorrosive trovammo una ditta che conduceva studi per nostro conto. Questo tipo di lavoro meccanico che potrebbe apparire artigianale ed empirico fu ad ogni modo sempre sulla frontiera più avanzata della tecnologia industriale».
I processi produttivi e le condizioni di lavoro nella Chimica 1

I processi produttivi e le condizioni di lavoro nella Chimica 1 monografia AA. VV., “Saronio”, capitolo “Una fabbrica autarchica” a cura di Ambrogio Casalino (tratto da “Le grandi fabbriche a Melegnano”, Melegnano, 2000)

I processi produttivi e le condizioni di lavoro nella Chimica 2

I processi produttivi e le condizioni di lavoro nella Chimica 2 monografia AA. VV., “Saronio”, capitolo “Una fabbrica autarchica” a cura di Ambrogio Casalino (tratto da “Le grandi fabbriche a Melegnano”, Melegnano, 2000)

I processi produttivi e le condizioni di lavoro nella Chimica 3

I processi produttivi e le condizioni di lavoro nella Chimica 3 monografia AA. VV., “Saronio”, capitolo “Una fabbrica autarchica” a cura di Ambrogio Casalino (tratto da “Le grandi fabbriche a Melegnano”, Melegnano, 2000)

«...uno tra i preparati i più nocivi dell’Industria Chimica era la beta-naftilamina (Bna)»

A ciò si aggiunga quanto contenuto nel documento del Consorzio Sanitario di Zona, che rappresenta forse la più importante testimonianza cartacea sulle condizioni disumane di lavoro, sulla pericolosità dei cicli produttivi e sull'inadeguatezza degli impianti. In esso si può leggere come uno tra i preparati i più nocivi dell’Industria Chimica fosse quello della beta-naftilamina (Bna), prodotta nello stabilimento di Melegnano nel reparto n°65 dal 1935 al 1961 e sintetizzata per reazione tra betanaftolo, ammoniaca e anidride solforosa e che veniva scaricata ancora liquida e calda in grandi contenitori aperti causando notevole sviluppo di vapori che stagnavano nel reparto, privo di impianti di aspirazione.
I processi produttivi dell'Industria Chimica dr. Saronio 1

I processi produttivi dell'Industria Chimica dr. Saronio 1 "Indagine chimico-analitica ed idrogeologica sulla discarica della ex Industria Chimica Saronio” a cura del Consorzio Sanitario di Zona (a firma congiunta Csz, Smal e Ufficiale sanitario di Melegnano) del 22 novembre 1978 e conservata nell'Archivio dell’Ufficio tecnico del Comune di Melegnano (tratto da "Le grandi fabbriche a Melegnano", Melegnano, 2000)

I processi produttivi dell'Industria Chimica dr. Saronio 2

I processi produttivi dell'Industria Chimica dr. Saronio 2 "Indagine chimico-analitica ed idrogeologica sulla discarica della ex Industria Chimica Saronio” a cura del Consorzio Sanitario di Zona (a firma congiunta Csz, Smal e Ufficiale sanitario di Melegnano) del 22 novembre 1978 e conservata nell'Archivio dell’Ufficio tecnico del Comune di Melegnano (tratto da "Le grandi fabbriche a Melegnano", Melegnano, 2000)

«... tutti quegli scarichi lì andavan giù nella fogna e finivano nel Lambro»

Inoltre, come ha raccontato a 7Giorni uno degli ex dipendenti, dell’Industria Chimica Saronio di Melegnano ora 81enne, : «Io ho visto le cose che sono successe, la gente che è morta dentro lì è tantissima, ma anche fuori, oltretutto inquinavano il Lambro. [...] Dentro la Chimica avevano delle apparecchiature, delle autoclavi, che erano tutte sotto il controllo della Ancc (Azienda nazionale controllo combustioni), erano delle caldaie enormi dove mettevano tutta la roba che arrivava a cuocere, bollire, ecc. e dovevano stare attenti perché se si spaccava qualcosa uscivano gas di tutti i tipi. Io facevo il disegnatore e avevo la planimetria di tutti i reparti e se c’era una caldaia che doveva essere cambiata dovevo fare il disegno, prendevo la planimetria, cancellavo la vecchia caldaia e ne disegnavo un’altra e ogni caldaia aveva il suo numero di matricola, cioè quello dato dal cartellino della Ancc che era rigorosissima per queste cose, però nessuno veniva a fare i controlli. Il meccanismo delle caldaie da cambiare funzionava così: quando arrivava una caldaia nuova per lo stabilimento militare di Riozzo, Saronio la faceva portare a Melegnano e quella vecchia la spostavano lì a Riozzo e io spesso dovevo solo modificare il numero del cartellino della Ancc sulla planimetria e nulla di più, quindi era tutta una balla colossale. Poi c’erano dei filtri, erano delle macchine enormi e molto lunghe, che venivano schiacciate e veniva giù un prodotto, che però non so cosa fosse. Poi c’erano dei tini enormi di legno con dei mescolatori e ce n’erano al pian terreno e anche al primo piano, poi c’era un impianto di acido solforico concentrato che era quello più pericoloso di tutti perché l’acido solforico quando scarichi brucia tutto e se non fai le cose giuste è facile che qualcuno ci rimetta la pelle. Poi ricordo che c’era un reparto, che a un certo punto hanno chiuso, lo han bloccato a chiave e non si poteva entrare, dove facevano dei prodotti altamente nocivi… Non so a cosa servissero, però ogni volta che andavi dentro lì dovevi avere delle maschere ma quelle che loro davano erano delle maschere di cartapesta che non servivano a niente, molta di quella gente lì è morta perché aspirava i gas [...] e nessuna autorità è mai intervenuta per controllare. Dopo hanno fatto delle leggi [...] ma nessuno è andato a vedere da Saronio cosa c’era sotto, perché tutti quegli scarichi lì andavan giù nella fogna e finivano nel Lambro. Ma poi c’erano altri impianti, io ho detto l’acido solforico perché era un impiantone enorme, ed era esattamente uguale a quello che io avevo visto a Bovisa dove ho lavorato per un paio d’anni. La cosa difficile da discutere è cosa facevano nei reparti, perché quelli che uscivano dalle macine, facevano turni di notte e di giorno e gli davano degli scarponi alti, zoccoloni a volte, con le mascherette che non servivano a niente e per purificarsi uscivano un’ora prima per lavarsi, poi andavano a casa – e come mi raccontava la moglie di uno dei dipendenti che è morto – non solo dovevano lavarsi un’altra volta ma dovevano mettere nel letto dove dormivano una specie di foglio di plastica per non sporcare le lenzuola. Figurarsi quella roba lì se si appiccicava alla pelle e bisognava fare queste cose, figurarsi uno che le respirava… e le maschere erano quelle lì. Infatti il 90% degli operai son morti prima dei sessant'anni, molti non sono andati neanche in pensione, poi morivano anche quelli fuori perché l’inquinamento che dava l’acido solforico si volatilizzava nell'aria. [...] Poi c’erano delle vasche di decantazione lungo la ferrovia che da Melegnano va verso Lodi sul lato sinistro, ci sono ancora due vasche abbastanza grandi, dove doveva defluire l’acqua delle fognature dello stabilimento, però non serviva a niente perché erano fatte male. Al massimo ci mandavano con delle lattine di vetro con un bastoncino a pescare l’acqua del Lambro dopo le due vasche di decantazione e le portavamo nel laboratorio interno: era come dire io rubo però mi autodenuncio, era una cosa assurda. Se ora fanno le rilevazioni bisogna vedere cosa vanno cercando, perché con quello che facevano e con le cose che erano lì a decantare, non so… Lì dovevano farli prima i controlli su tutto il territorio di Saronio, hanno anche costruito ma nessuno è andato a controllare sotto. Anche perché poi lì quelli delle macine erano i più bersagliati, c’erano dentro cinquanta o cento persone a lavorare lì ma non so quanti ne sono sopravvissuti. Oggi parlavo con uno che aveva il padre e uno zio che lavoravano dentro lì, morti tutti e due. Io ne conoscevo tantissimi. Ci davano il latte per disintossicarci, perché il dottor Saronio aveva una cascina proprio lì vicino, ma non serviva a niente il latte fresco. [...] Il problema era controllare che gli scarichi funzionassero in modo regolare, ma nessuno ha mai controllato. Poi c’erano alcuni reparti dove producevano cose tipo la diossina e se tu dovevi andare a fare dei controlli o dei rilievi le mascherine non servivano a niente, poi non so dov'è finita tutta la roba, dove la scaricassero, probabilmente nelle fognature. Producevano anche il cloro-soda che era un altro prodotto pericolossissimo, c’era di tutto lì ma nessuno controllava niente. Non avrebbero potuto scaricare nemmeno gli scarichi interni dello stabilimento lì, poi oltretutto non hanno mai fatto degli scavi. È rimasta la costruzione dove stava l’Ufficio tecnico quando lavoravo in Saronio, ma in tutti i fabbricati che sono stati demoliti nessuno è andato a controllare cosa c’era dentro. La Chimica a Riozzo era pericolosa, se facevano gas inquinanti e robe di questo genere avrebbero dovuto fare delle indagini e andare a vedere altro che cinque metri, dovevano andare giù e vedere se c’era qualche inquinamento di qualcosa più profondo. Hanno fatto tante di quelle cose sbagliate che a dirle tutte… Finita la guerra, sapendo cosa c’era lì… non c’erano i soldi probabilmente, ma tutta quell'area lì prima di costruire le case avrebbero dovuto fare degli scavi profondi anche, fare dei buchi e mandare giù dei tubi che aspirassero, però una ricerca di quel tipo avrebbero dovuto farla. Secondo me questo discorso qui andava fatto quando hanno chiuso lo stabilimento, allora dovevano fare i controlli, perché gli acidi e i gas probabilmente potrebbero aver inquinato in profondità; quando hanno demolito la fabbrica e hanno cacciato via tutti, l’azienda Montedison che ha assorbito e comprato tutto doveva stare attenta, non doveva prendere il territorio e lottizzare e vendere tutto, dovevano controllare sotto cosa c’era, almeno dove partiva l’impianto; ma almeno fare dei carotaggi ogni tanto e vedere, non dico scavare tutto, anche se sarebbe stato giusto con quello che c’era lì dentro e considerando che è stata la causa di morte di molte persone. Tra Melegnano e vicinanze saranno morte 2000-2500 persone. Abbiamo visto tante di quelle cose che un po’ di diffidenza nei confronti dell’Esercito che fa queste rilevazioni è comprensibile che ci sia. Il problema è che in quella Chimica di là lavoravano a tempo pieno, qui forse hanno messo l’impianto idrico e fatto dei prodotti, ma non so se hanno lavorato veramente a tempo pieno come di là, poi gli scarichi passavano di lì e andavano verso la ferrovia e quindi attraversavano quella zona lì, soprattutto il primo pezzo di Riozzo, dove ci sono le strade verso Carpiano e Landriano, il tubo che passava di là passava proprio sotto lì, attraversava, e lì sicuramente qualcosa di inquinante c’è. Però quando hanno costruito le case nessuno è andato a porsi il problema di vedere cosa c’era lì e di capire, magari non hanno bucato dove non si trovava il tubo ma con tutte le ville che sono lì, possibile che nessuno abbia trovato niente? Io dico di no, certo non ho la sfera di cristallo ma quelli che sapevano sono andati in pensione e son morti tranquillamente senza dire niente, qualcuno sapeva esattamente cosa si faceva e dove andavano a finire gli scarichi ma nessuno ha mai parlato. Vedevo anche che caricavano roba sui camion e la portavano non so dove, andavano a depositare della roba per esempio nei campi dove c’è Cerro al Lambro ma nessuno ha mai detto niente. Io dubito sempre perché purtroppo in Italia le autorità locali e anche quelle pubbliche spesse volte non fanno il loro dovere. Quando sai che uno fa certe cose nei suoi impianti e sta per chiudere tu devi fare il diavolo a quattro per fare dei controlli, magari con delle pompe che aspirino e portino su quello che c’è più a fondo. Io quando ripenso agli impianti di acido solforico e acido cloridrico… c’era una disonestà profonda, quando i filtri ad esempio si rompevano non venivano effettivamente cambiati ma scambiati tra i due stabilimenti di Melegnano e Riozzo. Le vasche di decantazione erano fatte proprio malamente, come se mettessi giù delle tavole come capita e quindi chissà quante cose sono filtrate nel terreno».
Articolo de

Articolo de "La Sinistra" dell'1-2 aprile 1979 (tratto da Giovanna Longhi, "L'Industria Chimica Saronio a Melegnano", luglio 1998)

Fonti:
Comune di Melegnano, "Le grandi fabbriche a Melegnano", Melegnano, 2000
Giovanna Longhi (in collaborazione con Carlo Marchesoni), "L'Industria Chimica Saronio a Melegnano", luglio 1998
http://foggiaracconta.altervista.org/blog/echi-di-guerra/foggia-la-fabbrica-della-morte/?
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