«Dall’11 marzo a casa con i sintomi del Covid-19, solo il primo aprile mi hanno chiamata per fare il tampone, e ci sono andata da sola»

RSA di Mombretto di Mediglia, un’Ausiliaria socio-assistenziale che lavora nella struttura Residenza Borromea racconta il suo calvario: «Volevo bene ad ognuno di quei nonnini»

Mentre le vittime della RSA di Mombretto sono salite a 64, mentre i parenti dei superstiti inviano una diffida nei confronti di ATS Città Metropolitana affinché la stessa provveda a disporre subito la sanificazione delle aree in cui sono attualmente ospitati i pazienti asintomatici, continua il nostro lavoro per documentare i fatti. Quella che pubblichiamo oggi è una storia che da il segno dell’assoluta confusione che regna a Residenza Borromea, nonostante ormai la vicenda sia di dominio pubblico sulle cronache nazionali.

«Sono disperata – racconta con la voce rotta dalle lacrime l’ASA che il 2 aprile ha contattato la Redazione di 7giorni – tutti quei morti, persone alle quali eravamo affezionati. Non riesco a dormire». L’operatrice alle dipendenze della Cooperativa Sorridere, lavora da più di dieci anni alla casa di riposo di Mediglia. «La mia cooperativa e la direzione di Residenza Borromea – illustra la donna che vive in un comune limitrofo - fin dal 23 febbraio ci hanno fornito tutti i Dispositivi di Protezione individuale, mascherine, guanti, tutto quello che serviva. Non tutto il personale sanitario le usava però. I parenti sono venuti a trovare i loro cari fino al tre di marzo. Quando la situazione è andata fuori controllo. Le mie colleghe si ammalavano, i medici e gli infermieri anche. Poi mi hanno mandato a casa, hanno detto che la vicinanza stretta con le persone risultate positive al Covid-19, faceva presumere che anche io fossi infetta».
Qui comincia il calvario della signora: «Mi sono sentita cadere il mondo addosso, il mio medico mi ha dato i giorni di malattia, sono andata a casa in attesa che mi facessero il tampone come mi avevano assicurato. Ho mandato mia figlia dai parenti, dovevo rimanere in quarantena da sola. Intanto i miei colleghi ogni giorno mi aggiornavano sui deceduti, ero disperata, gli volevamo bene a tutti quei nonnini. Ho cominciato a sviluppare i sintomi e peggiorare velocemente, febbre, tosse, mal di ossa. Ho chiamato più volte il mio responsabile della cooperativa, gli ho mandato numerosi messaggi, per sapere quando sarebbero venuti a farmi l’esame, avevo paura. Ho le sue risposte scritte, mi ha detto di non chiamarlo più perché non sapeva niente. Le assistenti sociali del comune dove risiedo sapevano la mia condizione, ma nessuna di loro mi ha chiamato, per controllare se fossi ancora viva o avessi bisogno di qualcosa. Fino a quando – prosegue l’assistente socio assistenziale - il mio medico ha sollecitato nuovamente ATS per l’accertamento diagnostico».
Quello che ci racconta di seguito appare incredibile anche alla luce delle procedure annunciate da Regione Lombardia sul tampone agli operatori.
«Dopo una lunga attesa, ricevo una chiamata – conclude la signora -, mi dicono che mercoledì 1 aprile, devo recarmi a Melegnano per svolgere l’esame. Da sola, piena di paure, con la febbre ho preso la mia automobile e mi sono recata alla struttura indicata a fare il tampone. Adesso sono in attesa del risultato». 20 giorni di attesa per un operatore sanitario sono francamente troppi per pensare ad un disguido. Il lato assistenziale e umano, il dovere di assistere chi è in prima linea è stato completamente accantonato. Se tutto fosse confermato, questa testimonianza, dimostra come gli operatori della struttura siano stati abbandonati al loro destino, dalla RSA, dalla cooperativa, dagli assistenti sociali, e infine da ATS Città Metropolitana.
Giulio Carnevale

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