Il datore di lavoro può decidere unilateralmente di modificare le mansioni assegnate al dipendente?
Sino al 25 giugno 2015,l’art. 2103 del Codice Civile prevedeva che il lavoratore doveva essere adibito alle mansioni per le quali era stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore acquisita
20 luglio 2017
Buongiorno, ho in essere un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con una Società dall’anno 2012, inizialmente sono stato assunto con mansioni di addetto allo sportello e a far data dall’anno 2015 mi sono state assegnate mansioni di analista di processi. Recentemente, contestualmente all’arrivo del mio nuovo Responsabile, mi è stato proposto un cambio di mansioni, ossia di assumere il ruolo di addetto ai sistemi e alle riparazioni tecniche (RTF), posizione che io ho accettato di buon grado. Dopo circa un mese il mio nuovo superiore gerarchico, mi ha, però, riferito che in azienda c’è un esubero di tecnici e che la società si vede costretta a riassegnarmi “mansioni di ufficio”, con il ruolo di vice direttore. Io non ho mai pensato di svolgere questo tipo di attività. Mi posso opporre a questo nuovo cambio di mansioni ?
Claudio
Gentile Signor Claudio,
presto riscontro alla Sua domanda con la collaborazione della Collega Avv. Ilaria Donini che si occupa precipuamente di questioni di natura giuslavoristica.
Con riferimento al tema specifico delle mansioni del dipendente osserviamo che, sino al 25 giugno 2015, il principio cardine sancito dall’art. 2103 del Codice Civile prevedeva che il lavoratore doveva essere adibito alle mansioni per le quali era stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore acquisita, ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Alla luce di tale disposto il datore di lavoro poteva variare le mansioni se tale scelta avveniva rispettando il principio dell’equivalenza, sia dal punto di vista oggettivo (parità di contenuto professionale) che soggettivo (coerenza con il bagaglio professionale acquisito e con la possibilità di un suo futuro sviluppo), delle nuove mansioni rispetto a quelle precedentemente espletate. La modifica in pejus delle mansioni da parte del datore di lavoro non era legittima neppure nelle ipotesi in cui la stessa veniva attuata con il consenso del lavoratore.
A decorrere dal 25 giugno 2015 nei confronti di tutti i lavoratori subordinati, anche se assunti precedentemente a tale data, si applica il nuovo art. 2103 c.c., come modificato dal Testo Unico di Riordino dei Contratti di Lavoro (art. 3 D.Lgs. n. 81/2015). A seguito dell’introduzione delle modifiche il nuovo testo dell’art. 2103 c.c., profondamente variato, fissa, tra l’altro i requisiti in presenza dei quali il datore di lavoro può unilateralmente modificare le mansioni attribuite al lavoratore e, inoltre, stabilisce il diritto del lavoratore, in presenza di svolgimento di mansioni superiori per un protratto periodo temporale, alla c.d. promozione automatica.
Il primo comma del riformulato all’art. 2103 pare innanzitutto ampliare i parametri di riferimento per valutare l’effettiva legittimità delle nuove mansioni assegnate al lavoratore a seguito dell’esercizio dello jus variandi da parte del datore di lavoro. L’art.2103 c.c. ora prevede, infatti, che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto ovvero a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito, ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. Dunque, elemento di novità rispetto al passato, è che non si fa più riferimento al requisito dell’equivalenza tra le ultime mansioni svolte e quelle di nuova assegnazione. Ebbene, con le modifiche introdotte dal D.Lgs. n.81/2015 al datore di lavoro è attribuita la facoltà di modificare unilateralmente le mansioni a condizione che le nuove siano riconducibili allo stesso livello di inquadramento e categoria legale (operai, impiegati, quadri, dirigenti), delle ultime effettivamente svolte. L’obbligo del datore di lavoro è limitato al rispetto formale del posizionamento delle nuove mansioni nell’ambito dello stesso di livello di categoria di inquadramento.
Ciò significa che, se in base al contratto collettivo applicato al contratto di lavoro il mutamento di mansioni non comporta alcuna variazione di livello e categoria, non sussiste alcun limite nell’assegnazione di nuove mansioni ad eccezione del caso in cui si versi in ipotesi di discriminazione. Quindi con la nuova riformulazione l’unico parametro di riferimento per valutare la legittimità del provvedimento di modifica delle mansioni è il sistema di classificazione del personale, indicato nel contratto collettivo applicato dal datore di lavoro. Con la soppressione del principio dell’equivalenza professionale il legislatore ha accresciuto enormemente il margine di manovra gestionale del datore di lavoro; restano però sempre cogenti gli obblighi di correttezza e buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c. che risulterebbero violati in caso di mutamento di mansioni ingiustificatamente penalizzanti il lavoratore senza alcun concreto beneficio all’organizzazione aziendale.
Preme poi segnalare che nel caso in cui il datore di lavoro non applichi alcun CCNL e non sia iscritto ad alcuna associazione di categoria che ha stipulato un CCNL, se la classificazione del personale è stabilita da un contratto aziendale si dovrà tenere conto delle previsioni ivi contenute; in mancanza, secondo parte della dottrina, l’unico criterio da soddisfare sarà quello del mantenimento della medesima categoria legale.
L’altra sostanziale novità è quella statuita al sesto comma dell’art. 2103 c.c. come novellato, che consente alle parti di stipulare accordi individuali di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento, della categoria legale e della relativa retribuzione, purché stipulati nelle sedi cosiddette protette di cui all’art. 2113, comma 4 c.c., (ossia avanti all’Ispettorato Territoriale del Lavoro, in sede sindacale, giudiziaria o avanti collegi di conciliazione e arbitrato irrituali, ovvero presso le commissioni di certificazione) ove il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato, da un avvocato, oppure da un consulente del lavoro e solo a condizione che i predetti accordi siano rispondenti all’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.
Oltre alle ipotesi di demansionamento lecito in via di patto individuale sopra esaminate, il nuovo testo dell’art.2013, attribuisce al datore di lavoro il potere di demansionamento in via unilaterale (senza il consenso del lavoratore), ovvero la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni riconducibili ad un livello immediatamente inferiore, con conservazione però dell’inquadramento e della categoria, nonché della relativa retribuzione, fatta eccezione per gli elementi retributivi legati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa.
Tale demansionamento unilaterale è consentito solo in due ipotesi, ossia nel caso previsto dal comma 2 del nuovo art. 2103 c.c., di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, o nelle ipotesi, di cui al quarto comma del predetto articolo, previste dalla contrattazione collettiva. Ciò sempre a condizione che le nuove mansioni rientrino nel livello di inquadramento inferiore e nella medesima categoria legale.
Dal tenore letterale della norma, si evince che la modifica in pejus può riguardare soltanto mansioni relative al livello di inquadramento immediatamente inferiore rispetto a quello attribuito al lavoratore, sempre a condizione che non vi sia una retrocessione in termini di categoria legale (ad esempio: da impiegato a operaio).
Qualora il mutamento delle mansioni derivi dalla modifica degli assetti organizzativi aziendali, il giudice eventualmente coinvolto nella valutazione della sussistenza di tale presupposto non potrà entrare nel merito dell’opportunità e/o della necessità del cambiamento organizzativo, ma dovrà limitarsi ad accertare che la modifica organizzativa sia reale e che abbia inciso sulla posizione del lavoratore.
In mancanza delle condizioni di legge o di contratto collettivo, il provvedimento di modifica delle mansioni sarà nullo ed il lavoratore potrà chiedere l’adibizione alle mansioni precedenti, nonché le differenze retributive e l’eventuale risarcimento del danno subito in conseguenza dell’illegittima condotta datoriale.
Va altresì precisato che il passaggio a mansioni inferiori è sottoposto a un requisito di forma molto rigoroso: deve, infatti, essere comunicato per iscritto, a pena di nullità. La legge non richiede però l’indicazione scritta anche delle motivazioni: la mancata specificazioni delle ragioni non pare, quindi, comportare l’invalidità dell’atto. A seguito della variazione disposta dal datore di lavoro, il lavoratore conserva in ogni caso il livello di inquadramento in essere al momento dell’assegnazione delle nuove mansioni nonché la relativa retribuzione, fatti salvi gli elementi retributivi collegati strettamente alle mansioni in precedenza assegnate
Da ultimo evidenziamo che come la precedente anche la nuova versione dell’art. 2103, al comma sette tratta l’assegnazione del lavoratore a mansioni superiori, discostandosi, tuttavia per alcuni aspetti alla norma precedente. In buona sostanza viene confermato che il lavoratore ha sempre diritto fin dal primo giorno al superiore trattamento economico corrispondente alle superiori mansioni, ma la definitività dell’assegnazione, con conseguente diritto al relativo inquadramento è subordinata all’avveramento di alcune condizioni: (i) alla non sostituzione di altro lavoratore in servizio; (ii) alla mancata manifestazione di volontà del lavoratore contraria alla definitività che, in assenza di diversa prescrizione, può esprimersi anche non per iscritto anche se questa appare sicuramente la forma consigliabile ai fini della prova, (iii) al superamento del periodo fissato dai contratti collettivi di ogni livello purché stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o, in mancanza, dopo sei mesi consecutivi.
Dunque, con riferimento al Suo caso, preliminarmente ci preme rilevare che in base a quanto da Lei riferito non risulta se le modifiche a Lei prospettate dal superiore gerarchico riguardino un passaggio a mansioni corrispondenti al suo inquadramento o comunque riconducibili allo stesso livello e alla stessa categoria legale delle ultime effettivamente da Lei svolte, oppure a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore rientranti nella medesima categoria legale. Oppure addirittura trattandosi di ruolo di “Vice direttore” a mansioni superiori. Pertanto per una valutazione puntuale andrà accertato a quale categoria appartengono le mansioni che la datrice di lavoro le vorrebbe assegnare.
Sicuramente risulta illegittimo che la proposta di cambio di mansioni sia stata effettuata dalla datrice di lavoro solo in forma orale, quindi un’eventuale modifica in pejus delle mansioni senza una comunicazione scritta comporterà la nullità del passaggio ad eventuali mansioni inferiori.
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Claudio
Gentile Signor Claudio,
presto riscontro alla Sua domanda con la collaborazione della Collega Avv. Ilaria Donini che si occupa precipuamente di questioni di natura giuslavoristica.
Con riferimento al tema specifico delle mansioni del dipendente osserviamo che, sino al 25 giugno 2015, il principio cardine sancito dall’art. 2103 del Codice Civile prevedeva che il lavoratore doveva essere adibito alle mansioni per le quali era stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore acquisita, ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Alla luce di tale disposto il datore di lavoro poteva variare le mansioni se tale scelta avveniva rispettando il principio dell’equivalenza, sia dal punto di vista oggettivo (parità di contenuto professionale) che soggettivo (coerenza con il bagaglio professionale acquisito e con la possibilità di un suo futuro sviluppo), delle nuove mansioni rispetto a quelle precedentemente espletate. La modifica in pejus delle mansioni da parte del datore di lavoro non era legittima neppure nelle ipotesi in cui la stessa veniva attuata con il consenso del lavoratore.
A decorrere dal 25 giugno 2015 nei confronti di tutti i lavoratori subordinati, anche se assunti precedentemente a tale data, si applica il nuovo art. 2103 c.c., come modificato dal Testo Unico di Riordino dei Contratti di Lavoro (art. 3 D.Lgs. n. 81/2015). A seguito dell’introduzione delle modifiche il nuovo testo dell’art. 2103 c.c., profondamente variato, fissa, tra l’altro i requisiti in presenza dei quali il datore di lavoro può unilateralmente modificare le mansioni attribuite al lavoratore e, inoltre, stabilisce il diritto del lavoratore, in presenza di svolgimento di mansioni superiori per un protratto periodo temporale, alla c.d. promozione automatica.
Il primo comma del riformulato all’art. 2103 pare innanzitutto ampliare i parametri di riferimento per valutare l’effettiva legittimità delle nuove mansioni assegnate al lavoratore a seguito dell’esercizio dello jus variandi da parte del datore di lavoro. L’art.2103 c.c. ora prevede, infatti, che il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto ovvero a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito, ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. Dunque, elemento di novità rispetto al passato, è che non si fa più riferimento al requisito dell’equivalenza tra le ultime mansioni svolte e quelle di nuova assegnazione. Ebbene, con le modifiche introdotte dal D.Lgs. n.81/2015 al datore di lavoro è attribuita la facoltà di modificare unilateralmente le mansioni a condizione che le nuove siano riconducibili allo stesso livello di inquadramento e categoria legale (operai, impiegati, quadri, dirigenti), delle ultime effettivamente svolte. L’obbligo del datore di lavoro è limitato al rispetto formale del posizionamento delle nuove mansioni nell’ambito dello stesso di livello di categoria di inquadramento.
Ciò significa che, se in base al contratto collettivo applicato al contratto di lavoro il mutamento di mansioni non comporta alcuna variazione di livello e categoria, non sussiste alcun limite nell’assegnazione di nuove mansioni ad eccezione del caso in cui si versi in ipotesi di discriminazione. Quindi con la nuova riformulazione l’unico parametro di riferimento per valutare la legittimità del provvedimento di modifica delle mansioni è il sistema di classificazione del personale, indicato nel contratto collettivo applicato dal datore di lavoro. Con la soppressione del principio dell’equivalenza professionale il legislatore ha accresciuto enormemente il margine di manovra gestionale del datore di lavoro; restano però sempre cogenti gli obblighi di correttezza e buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c. che risulterebbero violati in caso di mutamento di mansioni ingiustificatamente penalizzanti il lavoratore senza alcun concreto beneficio all’organizzazione aziendale.
Preme poi segnalare che nel caso in cui il datore di lavoro non applichi alcun CCNL e non sia iscritto ad alcuna associazione di categoria che ha stipulato un CCNL, se la classificazione del personale è stabilita da un contratto aziendale si dovrà tenere conto delle previsioni ivi contenute; in mancanza, secondo parte della dottrina, l’unico criterio da soddisfare sarà quello del mantenimento della medesima categoria legale.
L’altra sostanziale novità è quella statuita al sesto comma dell’art. 2103 c.c. come novellato, che consente alle parti di stipulare accordi individuali di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento, della categoria legale e della relativa retribuzione, purché stipulati nelle sedi cosiddette protette di cui all’art. 2113, comma 4 c.c., (ossia avanti all’Ispettorato Territoriale del Lavoro, in sede sindacale, giudiziaria o avanti collegi di conciliazione e arbitrato irrituali, ovvero presso le commissioni di certificazione) ove il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato, da un avvocato, oppure da un consulente del lavoro e solo a condizione che i predetti accordi siano rispondenti all’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.
Oltre alle ipotesi di demansionamento lecito in via di patto individuale sopra esaminate, il nuovo testo dell’art.2013, attribuisce al datore di lavoro il potere di demansionamento in via unilaterale (senza il consenso del lavoratore), ovvero la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni riconducibili ad un livello immediatamente inferiore, con conservazione però dell’inquadramento e della categoria, nonché della relativa retribuzione, fatta eccezione per gli elementi retributivi legati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa.
Tale demansionamento unilaterale è consentito solo in due ipotesi, ossia nel caso previsto dal comma 2 del nuovo art. 2103 c.c., di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, o nelle ipotesi, di cui al quarto comma del predetto articolo, previste dalla contrattazione collettiva. Ciò sempre a condizione che le nuove mansioni rientrino nel livello di inquadramento inferiore e nella medesima categoria legale.
Dal tenore letterale della norma, si evince che la modifica in pejus può riguardare soltanto mansioni relative al livello di inquadramento immediatamente inferiore rispetto a quello attribuito al lavoratore, sempre a condizione che non vi sia una retrocessione in termini di categoria legale (ad esempio: da impiegato a operaio).
Qualora il mutamento delle mansioni derivi dalla modifica degli assetti organizzativi aziendali, il giudice eventualmente coinvolto nella valutazione della sussistenza di tale presupposto non potrà entrare nel merito dell’opportunità e/o della necessità del cambiamento organizzativo, ma dovrà limitarsi ad accertare che la modifica organizzativa sia reale e che abbia inciso sulla posizione del lavoratore.
In mancanza delle condizioni di legge o di contratto collettivo, il provvedimento di modifica delle mansioni sarà nullo ed il lavoratore potrà chiedere l’adibizione alle mansioni precedenti, nonché le differenze retributive e l’eventuale risarcimento del danno subito in conseguenza dell’illegittima condotta datoriale.
Va altresì precisato che il passaggio a mansioni inferiori è sottoposto a un requisito di forma molto rigoroso: deve, infatti, essere comunicato per iscritto, a pena di nullità. La legge non richiede però l’indicazione scritta anche delle motivazioni: la mancata specificazioni delle ragioni non pare, quindi, comportare l’invalidità dell’atto. A seguito della variazione disposta dal datore di lavoro, il lavoratore conserva in ogni caso il livello di inquadramento in essere al momento dell’assegnazione delle nuove mansioni nonché la relativa retribuzione, fatti salvi gli elementi retributivi collegati strettamente alle mansioni in precedenza assegnate
Da ultimo evidenziamo che come la precedente anche la nuova versione dell’art. 2103, al comma sette tratta l’assegnazione del lavoratore a mansioni superiori, discostandosi, tuttavia per alcuni aspetti alla norma precedente. In buona sostanza viene confermato che il lavoratore ha sempre diritto fin dal primo giorno al superiore trattamento economico corrispondente alle superiori mansioni, ma la definitività dell’assegnazione, con conseguente diritto al relativo inquadramento è subordinata all’avveramento di alcune condizioni: (i) alla non sostituzione di altro lavoratore in servizio; (ii) alla mancata manifestazione di volontà del lavoratore contraria alla definitività che, in assenza di diversa prescrizione, può esprimersi anche non per iscritto anche se questa appare sicuramente la forma consigliabile ai fini della prova, (iii) al superamento del periodo fissato dai contratti collettivi di ogni livello purché stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o, in mancanza, dopo sei mesi consecutivi.
Dunque, con riferimento al Suo caso, preliminarmente ci preme rilevare che in base a quanto da Lei riferito non risulta se le modifiche a Lei prospettate dal superiore gerarchico riguardino un passaggio a mansioni corrispondenti al suo inquadramento o comunque riconducibili allo stesso livello e alla stessa categoria legale delle ultime effettivamente da Lei svolte, oppure a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore rientranti nella medesima categoria legale. Oppure addirittura trattandosi di ruolo di “Vice direttore” a mansioni superiori. Pertanto per una valutazione puntuale andrà accertato a quale categoria appartengono le mansioni che la datrice di lavoro le vorrebbe assegnare.
Sicuramente risulta illegittimo che la proposta di cambio di mansioni sia stata effettuata dalla datrice di lavoro solo in forma orale, quindi un’eventuale modifica in pejus delle mansioni senza una comunicazione scritta comporterà la nullità del passaggio ad eventuali mansioni inferiori.
Cordialmente
Avv. Luigi Lucente
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20 luglio 2017