La psicoterapia nella prima infanzia

Lo psicoterapeuta che si occupa della prima infanzia accompagna i futuri genitori in fase prenatale, durante il periodo di attesa e dopo la nascita del bambino fino al suo quinto anno di vita con forme di intervento differenti: esse possono essere costituite da un numero limitato di incontri come nel caso della consultazione o da un lavoro più prolungato come avviene per la psicoterapia. Tale forma di accompagnamento, declinata in modo specifico, è importante anche per le coppie che scelgono di intraprendere un percorso di fecondazione medicalmente assistita o che scelgono di adottare un bambino. Questo perché la funzione dello psicoterapeuta che lavora in tale ambito è quella di favorire il passaggio alla genitorialità, ossia “la nascita del bambino nella mente dei genitori”(Tsianstis, J., Boethius S.B., Hallerfors B., Horne A., Tischler L., 2002).

Questo perché la funzione dello psicoterapeuta che lavora in tale ambito è quella di favorire il passaggio alla genitorialità, ossia “la nascita del bambino nella mente dei genitori”(Tsianstis, J., Boethius S.B., Hallerfors B., Horne A., Tischler L., 2002).
La “nascita del bambino nella mente dei genitori” è un delicato processo caratterizzato dalla maturazione della disponibilità della madre e del padre ad accogliere, ciascuno nella propria mente, l’esperienza emotiva di essere in attesa di un bambino con le aspettative, le paure, i sogni, l’odio e l’amore che questo evento può suscitare. Si tratta di un percorso intimo che interpella la capacità generativa della mente e richiama le antiche esperienze infantili di entrambi i genitori, compreso il patrimonio della loro primissima infanzia. 

Questo patrimonio della prima infanzia è molto importante perché rappresenta una traccia di ciò che ciascuno ha appreso su come si fa a vivere a contatto con ad un altro essere umano: questa traccia è in gran parte inconsapevole ma rappresenta il sapere relazionale implicito (Stern, 2005) e l’origine emozionale del pensiero (Forti P., 2007) ed è alla base del funzionamento della mente.
La mente è un apparato che ha le sue peculiarità e sembra strutturarsi a livello del substrato biologico molto precocemente ma ha bisogno della relazione per crescere.
Bion, uno psicoanalista inglese che propose riflessioni di grande attualità clinica, definì la mente “l’apparato per pensare i pensieri e le emozioni” (1963): descrisse questo apparato come una struttura somatopsichica cioè come una struttura che ha origine nella biologia del corpo e che raccoglie, contiene e metabolizza le esperienze sensoriali imparando a trasformarle in pensieri emozioni, immagini, rappresentazioni di legami affettivi consci ed inconsci, sogni.
Bion, grazie all’esperienza clinica con i pazienti, aveva ipotizzato che il piccolo di uomo fosse dotato di questo apparato, che però funziona ancora in modo grezzo e non è in grado di fare tutto questo lavoro da subito e lo apprende con il tempo, se le cose vanno bene.
Egli aveva anche sostenuto che il modo in cui il bambino impara ad usare la mente cioè ad attivare con piacere la sua capacità di trasformare le sensazioni in immagini e queste in pensieri ed esperienze emotive, dipendesse, soprattutto, dalla qualità del dialogo affettivo con la figura di accudimento fin dalla nascita, se non addirittura prima di essa. Bion (1972) aggiunse che lo stile di funzionamento della mente, appreso nella primissima infanzia, determinasse il modo in cui sarebbero state usate da quella persona le funzioni percettive, l’attenzione, la memoria ed il ragionamento, cioè il modo in cui egli avrebbe appreso nel corso della vita.
Le moderne ricerche di osservazione del feto e del neonato (Negri R., 2008, Beebe B., Lachmann F.M. E Jaffe J, 1997) e gli apporti delle neuroscienze (Trevarthen, 1980; Stern 1991, 2005; Thompson, 2001) sembrano confermare l’ipotesi che questo apparato mentale esista fin dalla vita intrauterina e che sia costituito, originariamente, da un insieme di cellule, il substrato neurobiologico embrionale, da cui avranno origine le cellule del sistema nervoso, endocrino ed immunitario.
Sebbene sia riscontrabile una base genetica nella forza di questo substrato neurobiologico, sembra che accada un complesso e delicatissimo fenomeno per cui la disponibilità della madre e del padre a dare spazio, senso e profondità ai propri vissuti sul bambino svolga un ruolo fondamentale nel favorire un’ esperienza sufficientemente buona di sapori, suoni, contatti del feto con la parete uterina e che questi due fattori: la disponibilità mentale genitoriale e l’esperienza esplorativa del feto siano a loro volta correlati con la qualità della crescita morfologica delle connessioni tra le cellule che costituiranno appunto il sistema nervoso, endocrino ed immunitario del bambino sia in utero che dopo la nascita (Imbasciati, Dabrassi, Cena, 2011).
Con tutto questo un bambino viene al mondo.
Secondo alcuni autori il neonato viene al mondo aspettandosi inconsciamente un incontro con una figura di accudimento che, sentendosi a sua volta protetta, possa comprenderlo, tenendolo tra le braccia. Definiscono questa aspettativa pre-concezione di connessione (Bion, 1963, Briggs, 1999).
Si può aggiungere che questa aspettativa di connessione predilige la figura di accudimento di cui il neonato ha memoria e che riconosce a partire dall’esperienza uterina. Solo così può usare ciò che ricorda dell’esperienza in utero e stabilire un senso di continuità sopportando l’adattamento al mondo.
Ci sono autori come Stern (1991) e Vallino (2004) che hanno descritto con grande precisione clinica ed al contempo con estrema poesia, l’esperienza di osservazione dei neonati nei primi giorni di vita facendo emergere quante cose cambino per il neonato e come: il passaggio da un ambiente liquido ad uno gassoso in cui c’è la forza di gravità sembra dare al piccolo la sensazione di cadere all’infinito, l’atto di respirare può indurre panico, imparare a trovare il seno sembra essere una forsennata ricerca che si può acquietare con l’incanto e la soddisfazione o che può diventare una terribile faticosa pena, la fame ed il sonno possono indurre una sorta di terrore di andare in pezzi.
Altri autori come W. Bucci (2001) mettono altresì molto bene in luce uno degli aspetti per cui le esperienze possano essere così intense per il neonato: chiamano questo aspetto percezione trans modale. La percezione transmodale è quel fenomeno per cui il neonato riconosce un suono, un odore, una consistenza, può averne anche memoria ma tende ad estendere a tutto il corpo questa esperienza come se fosse una vibrazione molto forte che coinvolge tutti i canali sensoriali. Un esempio di percezione transmodale può essere che se il piccolo sente con la bocca qualcosa di ruvido è come se tale sensazione di estendesse a tutto il corpo e si traducesse in un ruvido tattile, in un ruvido olfattivo, perfino un ruvido relazionale: se quello che con cui il neonato è entrato in contatto è ruvido è come se in quel momento anche la mamma che è lì accanto fosse ruvida; ed è vero anche il contrario: un’esperienza di contatto accompagnata da tono di voce “ruvido” può far diventare tutto il mondo sensoriale percepito dal piccolo poco accessibile e “ruvido”.
E poi c’è la fatica dei genitori: anche per essi il “bambino”, sia esso il loro neonato o un figlio adottivo che arriva da altrove, può essere in principio vissuto come un “marzianino”: chi è, cosa vuole, perché piange o protesta, perché piange o protesta ancora, si attacca al seno/ a noi, non si attacca/a noi, perché non si attacca, come succhia, mangia, cresce di peso, cala di peso, le coliche...
A volte e in questa fase è sorprendente la capacità di resistenza di certi genitori a fronte di situazioni che sembrano fatte apposta per far impazzire le persone.
Se le cose vanno abbastanza bene, l’elemento che salva la relazione e che è dentro la relazione è la predisposizione del bebè a ricercare la figura di accudimento e la disponibilità dell’adulto a cercare di comprendere l’intenzione comunicativa del piccolo e di sperimentare micro-rotture di sintonizzazione affettiva e riparazioni di essa in tempi tollerabili per la diade.
Una madre che tiene in braccio il piccolo, se non è troppo spaventata e stanca e soprattutto non lo è troppo spesso, se si sente sufficientemente protetta, nei momenti in cui ella prova un temporaneo ed umano odio verso il bebè, dal padre del bambino, può riuscire a soccorrere il piccolo con i gesti, con il tono della voce, con lo sguardo e con tutto il corpo, e a contenerlo per le sensazioni che egli prova e che in alcuni momenti possono suscitare in lui una grande angoscia e un senso di terribile confusione.
La triangolazione affettiva è la funzione accogliente della mente della madre che le permette di accudire il suo bambino perché ella può evocare dentro di sé la sicurezza e la protezione rappresentate dal padre del bambino; la possibilità di attivarla o di ripristinarla è, per eccellenza, il fattore preventivo di molte forme di disagio che, se non accolte nella primissima infanzia, possono determinare una sofferenza prolungata del sistema famigliare e del bambino, fino a strutturarsi in psicopatologia (Tsianstis, J., Boethius S.B., Hallerfors B., Horne A., Tischler L., 2002).
Ad esempio, nella primissima infanzia si possono ritrovare manifestazioni di disagio o di sofferenza psichica famigliare che emergono spesso con una sintomatologia di carattere organico del bambino e toccano le aree dell’alimentazione, del sonno, del linguaggio, della motricità: le coliche molto intense e frequenti, il pianto inconsolabile, un ipertono o ipotonomolto franchi in assenza di un’ origine neurologica, le dermatiti, e successivamente i disturbi del ritmo del sonno prolungati, sono le manifestazioni più frequenti (Debray R., Belot R.A., 2009).
Da quanto esposto si può comprendere perché la consultazione nella prima infanzia possa svolgere un’importante funzione permettendo di accudire la funzione riflessiva genitoriale e quindi lo sviluppo della mente del bambino fin dalle primissime fasi della vita e prevenendo così i disturbi del pensiero, dell’apprendimento e delle emozioni ovvero della relazione che di solito nel bambino vengono diagnosticati nel corso dell’età evolutiva, in genere quando egli fa il suo ingresso a scuola, con un dispendio molto grande di risorse sociali e sanitarie.
Per questo sarebbe importante che gli aspetti della perinatalità psichica potessero trovare un luogo in cui essere non solo ascoltati ma pensati e significati, che sia uno spazio protetto, costante, stabile.
Sarebbe importante che la frequentazione di questo luogo, che si può qualificare in principio come consultazione psicoterapeutica per la gestazione e per la prima infanzia, entrasse nella cultura sanitaria come una prassi condivisa e necessaria e non come un incontro sporadico in cui si trattano “temi psicologici” e sarebbe soprattutto importante definire questa funzione come una competenza della figura professionale dello psicoterapeuta formato per fare questo tipo di lavoro.
Laura Tinini, psicoterapeuta dell’età evolutiva

 

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